ALBERTO CECOTTI ## Milanese di Milano, 49 anni, istruttore di guida e giornalista

Nel mondo delle moto il milanesissimo Alberto Cecotti, detto Cek, 49 anni, single e senza figli, lo conoscono veramente tutti. E tutti stravedono per lui (nella foto sembra uno incazzoso, ma è un pezzo di pane). Ha iniziato da bambino con le gare di motocross, poi è passato a fare il tester di moto, è diventato una delle firme giornalistiche più note del settore (adesso scrive per i mensili Riders, In Sella e il portale Red-Live.it), è istruttore di guida sportiva fra i più apprezzati d’Italia (fra i suoi allievi – per dire – c’è anche Francesca Pascale, la giovane fidanzata di Silvio Berlusconi), e di tanto in tanto fa anche “l’attore” per le pubblicità d’area (se vi capita di vedere lo spot di una moto con un anonimo e misterioso pilota con la visiera calata è molto probabile che dietro ci sia lui). Insomma, se c’è qualcosa da fare con una due ruote, questo centauro segaligno dai capelli sale e pepe, prima o poi la fa. Monta in sella, accende e va.

Quando ha iniziato?
«Papà Alvaro negli anni ’70 correva in pista a livello nazionale, così a 3 anni mi regalò la prima mini moto da cross – ho un paio di foto sui marciapiedi di Milano che sono uno spasso – e a 6 ho iniziato con le gare».
Risultati?
«All’inizio ero timido e introverso, faticavo a impormi. Nel cross si parte tutti allineati: per fare risultato e guadagnare posizioni bisogna essere molto aggressivi fin dalla prima curva. Gara dopo gara, a furia di prenderle, questo sport ha tirato fuori il mio carattere: alla fine sgomitavo anche più degli altri. Insomma, mi ha temprato anche come bambino e ragazzo. Tra l’altro, non sentivo la pressione di mio padre al quale interessava solo che facessi sport e mi divertissi. Non avevo paura…».
Che cosa intende dire?
«A 7-8 anni ho visto tanti padri prendere a sberle i figli perché arrivavano secondi o terzi in classifica. Scene penose. Poi a 9 anni un incidente cambiò un po’ tutto».
Roba seria?
«Abbastanza. Alla partenza di una gara invece di curvare andai dritto e mi fermai solo quando il mio collo “incontrò” il filo spinato del campo vicino alla pista: mi stava staccando la testa… Ero in terza elementare e per via delle cure non andai a scuola per due mesi. Mia madre, tendenzialmente lontana e impaurita dal mondo delle moto, fu di poche parole: “Adesso basta”.
Basta basta?
«Fino a 15 anni di agonistico per me ci fu solo la bici: correvo nelle squadre in Brianza dove mio padre aveva nel frattempo spostato la sua azienda. Mi allenavo tutti i giorni, e per spostarmi mia madre dopo un po’ mi concesse una moto. Dopo pochi mesi tornai a gareggiare. La “carogna” non mi aveva mai abbandonato… Non fu facile ma, visti i buoni risultati, nel giro di una stagione cambiai categoria: da 80 a 250 di cilindrata. Errore fatale: andavo veloce ma non ero fisicamente pronto, avrei dovuto correre prima per la 125. Infatti in 3-4 anni mi feci male più di una volta…».
Quante volte?

«Una decina, spaccandomi tra l’altro tibia e perone. Nel motocross è normale, io però come andavo giù mi rompevo qualcosa. La mia media di fratture era troppo alta. A 19 anni finalmente realizzai che non sarei mai diventato un campione, e abbandonai le gare. A quel punto dovevo trovarmi un lavoro».
Studi fatti?
«Sono perito industriale, specializzazione meccanica. Purtroppo non ho fatto l’università, errore madornale perché mi sento incompleto».
Che lavoro si mise a fare?
«Iniziai a lavorare nell’azienda di mio padre, che produceva regolatori di tensione per autoveicoli. Senza fare il figlio di papà, ovviamente, ma partendo da aiutante del vice magazziniere… Tempo dopo, a 23-24 anni, una giornalista amica di mia sorella, Clara Romagna, mi disse che il mensile Moto Tecnica cercava un collaboratore esperto per fare test con le moto nuove. All’epoca ex piloti di motocross con un diploma, in grado di scrivere in italiano semplice ma corretto, ce n’erano pochi in giro, e così accettai subito. Era il ’92. Iniziai un percorso che in pochi anni mi portò a essere chiamato da Enzo Caniatti, il direttore di Tuttomoto, all’epoca fra le riviste più autorevoli e vendute del settore, che mi fece un’offerta di lavoro interessante».
E l’impiego nell’azienda di suo padre?
«Con la sua benedizione lasciai il certo per l’incerto, visto che il contratto di assunzione a tempo indeterminato Tuttomoto me lo fece dopo tre anni di Co.Co.Pro. Mi andò bene. Nel 2001 poi, grazie all’Aprilia, che aveva lanciato una maximoto fantastica che però non vendeva, iniziai anche a fare dimostrazioni in pista per e con i clienti. Da quel momento in poi, visto il successo, i corsi di guida sicura e sportiva sono diventati una parte importante della mia attività. Corsi di cui c’è davvero un gran bisogno».
Come sono i milanesi che vanno in moto?
«Così e così, sicuramente meglio che in passato. Fino agli anni ’90, dico la verità, erano un disastro. C’era chi andava veloce ma non sapeva quello che faceva, era pericolosissimo per sé e per gli altri. C’era e c’è ancora. D’altra parte, per avere la patente, ancora oggi nessuno fa una vera scuola guida…».
Girando per Milano, oggi, il problema maggiore qual è?
«Al primo posto metterei il fatto che l’utente medio ha una percezione del pericolo molto bassa. Nel traffico cittadino va troppo veloce, rischia ogni secondo di farsi male. Sembra strano, ma lo sportivo che gira in pista quando guida su strada è molto più prudente, tranquillo e attento a tutto».
Che cosa bisognerebbe cambiare?
«L’approccio in generale. Il motociclista medio, o lo scooterista, che spessso è più imprudente, se va in autostrada a fare un viaggio si veste come Valentino Rossi, ma quando gira in città usa il casco e basta, non adotta altre precauzioni. Questo è sbagliato, in autostrada non succede quasi mai niente, in città accade di tutto ogni minuto. Sono le statistiche a dirlo, non io. Si associa il rischio alla velocità, è vero, ma dipende più che altro dal contesto: in città si va più piano ma ci si fa male molto più spesso».
E quindi?
«Bisogna equipaggiarsi bene: usare sempre un paraschiena, perché basta cadere a 10 km all’ora per farsi male molto seriamente; mettere sempre i guanti protettivi, che non servono per ripararsi dal freddo ma da brutte fratture alle mani; coprirsi il viso, perché un insetto a 60 km all’ora è come un sasso. E poi allacciare bene il casco, perché se il cinturino è “molle”, e si muove sotto il mento, quando si cade il casco stesso può provocare danni irreparabili. Conosco tanta gente che se si fosse tutelata, oggi non si troverebbe in una brutta situazione».
Dove insegna adesso?
«Alla Riding School di Luca Pedersoli, in Franciacorta. Me la tiro un po’: dicono sia la migliore d’Italia. Lo è».
Che cosa fa di preciso nel corso di guida sicura?
«Lezioni di teoria e pratica per riuscire a superare gli imprevisti, cioè controllare le proprie reazioni nel momento del pericolo improvviso».
In pratica?
«Saper frenare correttamente, gestire la moto…».
Più spericolati i milanesi o le milanesi?
«Di solito le donne sono un po’ più fifone. Nei corsi però imparano molto più in fretta degli uomini».
Una sua allieva è Francesca Pascale, la compagna di Silvio Berlusconi: lei com’è?
«Molto appassionata e concentrata. Avendo convinto il presidente, che era contrario, a lasciarla andare in moto, ha voluto fare tutto molto seriamente. Dal suo entourage mi hanno dato poche istruzioni ma chiare: “Faccia tutto quello che deve, basta che a lei non succeda niente di male”».
E lei che ha fatto?
«Abbiamo iniziato dalle basi. Siamo stati tante ore insieme sulla moto, prima io davanti e lei dietro e poi viceversa. E piano piano ha imparato».
Non aveva esperienza?
«Mai salita prima su una moto. Solo su un Piaggio Liberty, uno scooter di quelli piccoli».
E adesso?
«Ha iniziato con una Ktm 200, poi ha preso un’Harley Davidson. Adesso va come si deve, è veloce».
Le strade più pericolose di Milano?
«Tutte quelle con il pavè, i tombini, le rotaie, e quei maledetti divisori di gomma nera che spesso non hanno i catarifrangenti. Se li prendi con la macchina, pazienza. Se li prendi con la moto, sei a terra».
Ha mai fatto un incidente in città?
«Sì, in quinta superiore. Ero in via Ripamonti, all’altezza del vecchio Consorzio Agrario, ed ero in ritardo per la scuola. All’incrocio arrivò un signore che rallentò facendomi capire di avermi visto. In realtà aveva l’occhio sinistro di vetro… Io andai dritto tranquillo ma lui accelerò prendendomi in pieno. Sono vivo per miracolo. Avevo una Honda Transalp 600 e, può sembrare strano ma è così, mi salvai per la velocità: nel momento dell’impatto rimbalzai sull’auto e feci un volo di 15 metri. Me la cavai con una commozione cerebrale e nessuna frattura. Pur avendo ragione l’assicurazione non mi pagò perché ero troppo giovane per guidare quella cilindrata. Un’altra lezione preziosa: mai violare il Codice. Il pericolo è ovunque».

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