ANTONIA MONOPOLI ## Milanese di Bisceglie, 43 anni, operatrice sociale

Antonia Monopoli nasce Antonio 43 anni fa a Bisceglie, in provincia di Barletta-Andria-Trani. La sua è una storia complicata e dolorosa, che qui racconta senza filtri, finita nel migliore dei modi. Milanese dal ’94, Antonia – dopo anni di prostituzione – dal 2009 è la responsabile dello Sportello Trans di Ala Milano Onlus (Associazione per la lotta all’aids), che dal 2002 opera nel sociale a tutto campo. Impegno che ha trasformato Antonia in un riferimento importante per tante persone in difficoltà. Ci incontriamo di pomeriggio nel suo ufficio di via Boifava 60/A, periferia non proprio facilissima di Milano Sud.

Che cosa fate qui?
«Dalla prevenzione anti-aids alla cooperazione internazionale siamo operativi a 360 gradi. Abbiamo anche unità di strada per fronteggiare emergenze legate a dipendenze di ogni tipo».
Chi paga?
«Noi lavoriamo a progetto. Ci presentiamo ai vari bandi e se li vinciamo riceviamo i finanziamenti dalle istituzioni, altrimenti niente».
Lei che cosa fa di preciso?
«Sono la responsabile del Progetto Trans, che prevede sia una consulenza a tutto tondo nella nostra sede, sia interventi sul campo con gruppi dedicati. In pratica, interagiamo con chi si vende per strada dando indicazioni di ogni tipo: dalla prevenzione contro l’Hiv al modo in cui provare a smettere. Sono peer educator, un’educatrice alla pari: in quanto trans ed ex prostituta, so di che cosa parlo. Questa vita è stata la mia realtà per dieci anni».
Quando cominciò?
«È una storia lunga. Iniziò tutto quando avevo 8 anni e in qualche modo avevo già capito di essere diverso dagli altri: volevo essere una bambina. Mia madre, che non aveva gli strumenti per capire la complessità della situazione, andò dal medico di famiglia che, come se niente fosse, le disse di rivolgersi al manicomio. Che a Bisceglie c’era. Così mi misero una rete in testa, mi fecero l’elettroencefalogramma, e poi andarono da mia madre per farle questa proposta: “Signora, potremmo fare una lobotomia e le togliamo la parte “malata”. Il rischio è che suo figlio dopo non riconoscerà più niente e nessuno. Via la memoria. Dovrà ripartire da zero. Ci dica lei».
Sua madre che cosa disse?
«Spaventata, se ne andò. Da allora in poi cominciò a chiedere a tutti i medici che incontrava che malattia avessi. Perché ero così effeminato e “scheccavo”? Solo anni dopo, quando ormai ne avevo 18, a Trani incontrammo uno psicologo che le disse: “Suo figlio non è malato, dovete soltanto cercare di accompagnarlo nel suo percorso».
Bene. Ma da 8 a 18 anni come andò?
«Malissimo. A 16 anni scappai di casa per andare a Roma da un’amica trans. Durò un giorno, i miei mi riportarono subito a Bisceglie. Da allora iniziai ad avere qualche problema di alcolismo. Per affrontare la situazione – uscire di casa, per esempio – avevo bisogno di bere. Come mi vedevano in strada i ragazzini mi insultavano, mi inseguivano con i gavettoni, mi tiravano i sacchi dell’immondizia. Giù al Sud questo era il trattamento per quelli come me».
E a scuola?
«Lasciai dopo la terza media. Per affermare la mia identità, ma anche il mio disagio, mi comportavo male, me ne fregavo di tutto, spesso non ci andavo proprio. E l’indomani falsificavo la firma dei miei genitori per la giustificazione».
Che cosa cambiò dopo l’incontro con il medico di Trani?
«Iniziai a farmi crescere i capelli e ad assecondare sempre di più la mia vera natura. Comportamento che scatenò discussioni, liti, attacchi di ogni tipo. I miei parenti arrivarono a offrirmi soldi per convincermi a tagliare i capelli e non dare scandalo. Senza riuscirci mai».
Suo padre che lavoro faceva?
«Il muratore e la maschera al cinema-teatro di Bisceglie, dove andavo con lui ogni volta che c’era qualche spettacolo. Mamma invece era una casalinga che ricamava in casa per alcune aziende di biancheria. Lo fa ancora oggi».
Milano come entrò nella sua vita?
«Nel ’94. La mia, a 22 anni, fu una scelta ponderata».
In che senso?
«A Bisceglie avevo due amiche trans che si erano trasferite da un anno. Loro sapevano che volevo vivere da donna e mi dissero: “Se vieni a Milano, almeno all’inizio, ti aiutiamo noi. Qui si sta bene. L’unico compromesso, però, è la prostituzione”. Ci pensai a lungo e alla fine, a settembre, decisi di venire. Non fu facile abituarsi. Non ero mai uscita dalla Puglia, se non per la fuga di un giorno a Roma. Milano per me era dall’altra parte del mondo. Cominciai a lavorare in strada la prima sera. Vivevo e lavoravo di notte, dormivo di giorno».
C’era chi la sfruttava?
«No. Ero completamente indipendente. E all’inizio anche euforica. Felice».
Che vuol dire?
«A Milano potevo finalmente essere me stessa e vestirmi da donna senza problemi. A Bisceglie i miei furono sempre molto chiari: “Fino a quando vivi sotto il nostro tetto, devi comportarti da maschio. Quando andrai via, farai quello che vuoi”. Ecco perché Milano fu una liberazione. Anche il sentirsi desiderata, mi piaceva molto. In strada all’inizio avevo sempre i fari addosso, ero la novità: tutti i clienti mi volevano provare, volevano sapere com’ero. Poi, ovviamente, dopo un anno arrivò la depressione. Misi a fuoco la realtà quotidiana, con tutte le problematicità di un trans che si prostituisce: le paure, le offese, le menzogne continue… lo schifo».
I milanesi visti dalla strada come sono?
«Pessimi. Sfacciati. Ignoranti. Si avvicinavano per lanciare le uova, per urlare “Fatti la barba, fatti la ceretta”, per offendere… Mi sono sempre fatto scivolare tutto addosso. A me, nonostante la depressione, la strada ha fortificato il carattere. Mi ha aiutato ad affrontare l’esclusione sociale. E a cercare la mia strada per inserirmi».
Sul suo corpo intervenne subito?
«Sì. A Milano iniziai subito una terapia ormonale fai da te per farmi crescere capezzoli e ghiandola mammaria. Gli occhi si addolcirono, i zigomi si riempirono, i muscoli si sciolsero. Tutto il corpo si modellò al femminile, cosa per me bellissima. Però volevo smetterla con la strada. Non ne potevo più. Provai a cercare lavoro nei supermercati, ma ogni volta che mi vedevano finiva lì… Depressa, iniziai a stare a casa a guardare il soffitto tutto il giorno, fumando come una turca. La sera mi vestivo e uscivo per lavorare. Non facevo altro. Nel 2002, la svolta. In un negozio incontro una vecchia conoscenza di strada, una trans, che mi dice: “Guarda che a Milano, all’Arci Gay di via Bezzecca, c’è chi può aiutarti”. Andai subito, iniziai un percorso che in due anni cambiò la mia vita per sempre».
Con la sua famiglia i rapporti com’erano?
«Fino al 2002, nonostante i cambiamenti fossero molto visibili, tornavo a casa dai miei, tergiversando sulla mia vita di Milano. Fiera di quello che ero, mi vergognavo di quello che facevo. Mia madre, ovviamente, mi chiedeva di non mettermi la gonna, di vestirmi “ambiguo”, la gente in paese chiacchierava… Avevo i capelli lunghi fino al sedere, ma per farla contenta accettavo di vestirmi da uomo. Anche se si vedevano i capezzoli e gli occhi, anche dei parenti, cadevano subito lì».
Nel 2002 che fece?
«Iniziai a lavorare in un call center di cartomanzia, continuando a prostituirmi perché i soldi non mi bastavano per vivere. Nel 2004, chiusa per sempre la parentesi della strada, andai a Bisceglie per dire a tutti, parenti e amici, come stavano le cose: ero Antonia e come tale dovevano porsi nei miei confronti, altrimenti addio per sempre. Intimoriti, risposero: “Certo, come vuoi tu. Nessun problema”».
Se non ci fosse stata Milano nella sua vita come sarebbe andata a finire?
«Chi lo sa? Di sicuro Milano mi ha dato la mia vera identità, un lavoro, gli amici. È grazie a questa città se sono riuscita a fare della mia vita anche una questione politica. In questi anni ho fatto un gran lavoro per me stessa ma anche per gli altri trans».
Milano è per sempre?
«Sì, certo. È la città che mi ha adottato, la mia città. Spero solo che in futuro ci sia una giunta comunale aperta alle diversità come oggi lo è quella di Pisapia. Spero tanto che dopo di lui a Palazzo Marino vada Maiorino. Meglio lui di uno della Lega».
Ha visto l’Expo?
«No. Si potevano fare tante di quelle cose con i soldi che hanno speso. Che spreco…».
Il suo luogo del cuore a Milano qual è?
«Il Castello Sforzesco, meraviglioso».
Quante persone si rivolgono al suo Sportello Trans?
«Più o meno cento l’anno».
In concreto che cosa fa?
«Offro consulenza sul transito, quindi informo sul percorso da seguire con l’endocrinologo e lo psichiatra, l’avvocato per il tribunale, il cambio di sesso e il nome, l’abbandono del lavoro in strada, la ricerca di un lavoro, di una casa… Come liberarsi dai debiti».
Cioè?
«Soprattutto le brasiliane vengono sfruttate sessualmente da un racket bene organizzato, con cui arrivano clandestinamente in Italia, e a cui devono tanti soldi».
Quanto?
«Da un minimo di 30 a un massimo di 50 mila euro. Così, da quando arrivano fino a quando non estinguono il debito, sono letteralmente piantonate».
Vengono in Italia per quale motivo?
«Per le trans sudamericane l’Italia è l’America. Tanti clienti, tanti soldi».
In un anno su 100 che si rivolgono a lei quanti sono gli stranieri?

«Pochissimi. Sono quasi tutti italiani. Uomini e donne».
Per strada invece?
«Quasi tutti stranieri. il mio servizio di consulenza è sia per trans che si prostituiscono che per tanti altri, la maggioranza, che non lo hanno mai fatto. Metà fanno il percorso da uomo a donna, l’altra metà da donna a uomo»
Le problematiche maggiori?
«Il rapporto con la famiglia, riconoscersi e farsi riconoscere, come dirlo al datore di lavoro…».
Dal punto di vista burocratico?
«È un percorso lungo, riconosciuto con la legge 164 dell’82. Visto che la transessualità ancora oggi è riconosciuta come malattia mentale, il cambio di sesso – e quindi anche di nome – viene riconosciuto solo se si fa l’intervento chirurgico ai genitali. La novità è che dal 2013 a oggi ci sono dieci sentenze che dicono che il trans interviene chirurgicamente solo se sente disagio persistente con il proprio sesso, quindi dieci persone hanno potuto cambiare nome senza fare l’operazione ai genitali».
Quanti arrivano all’operazione?
«Al massimo trenta su cento. In realtà quasi tutte le persone trans non vogliono mutilarsi, hanno già una vita sessuale soddisfacente. Perché dovrebbero? Per aver un organo che poi non possono usare?».
Il suo percorso a che punto è?
«Va avanti. Vivo 24 ore su 24 da donna. Tre anni fa ho fatto un’orchiectomia, la rimozione delle gonadi. Avevo un disagio persistente con il mio testosterone, mi davano molto fastidio l’erezione e lo sperma, e così ho tolto per sempre questa parte maschile. Se ho un rapporto mi eccito, ma non arrivo all’orgasmo. Proprio come una trans operata. Vivo bene la mia quotidianità. Ho potuto cambiare i documenti, così non devo più spiegare tutto di me».
Farà l’operazione?
«Non lo so se arriverò mai all’intervento di costruzione della vagina. Non ho fretta. La mia identità l’ho realizzata, per ora sono contenta così. Sono Antonia, Antonia Monopoli».

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