BARNABA PONCHIELLI ## Milanese di Milano, 42 anni, agitatore

Pronipote del celebre compositore ottocentesco Amilcare Ponchielli, figlio del primo photo editor italiano Amilcare Gianni Ponchielli – scomparso nel 2001, lavorò per Max, Amica, Sette – Barnaba Ponchielli è un instancabile operatore culturale tanto trasversale quanto originale, uno che ne fa di tutti i colori, un vero e proprio agitatore. Milanesissimo, 42 anni, Barnaba ha una piccola etichetta discografica, Sangue Disken, che pubblica i lavori di giovani artisti che di sicuro non passeranno da Sanremo, cura la programmazione musicale in alcuni locali cittadini, organizza mostre (anche nei bar), pubblica libri di fotografia (l’ultimo, Fotofinish, è una raccolta di foto dedicato al padre), ha scritto per giornali… E ha iniziato recitando in carcere, a Volterra.

È finito dentro?
«Sì, dal 2000 al 2007, ma solo per recitare. Non scherziamo… Ho studiato cinema e teatro all’università di Pavia, facoltà di Lettere. Il terzo anno, grazie a un professore, andai a fare un corso al Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Sant’Arcangelo, in provincia di Rimini. Ho lavorato per sette anni con la Compagnia della Fortezza, dentro e fuori dal carcere di Volterra, come consulente musicale, attore – negli spettacoli Nihil e Il Vuoto – e addetto alla regia audio: in questo periodo ero nel team che nel 2002 ha fatto vincere alla compagnia il Premio Ubu per il miglior spettacolo dell’anno con I Pescecani-ovvero quello che resta di Bertolt Brecht. Insomma, un’esperienza fantastica che mi ha dato tantissimo. Mi ha fatto capire che, volendo, si può fare di tutto ovunque».
Quando ha iniziato a occuparsi di musica?
«Da piccolo. I miei mi facevano sentire solo musica classica, soprattutto Vivaldi, Beethoven e Mozart».
È una tradizione di famiglia.
«Certo. Al liceo ho cominciato ad ascoltare la musica in modo più conscio e attento, partendo dai primi due dischi degli Iron Maiden. Poi, durante gli studi, ho iniziato a scriverne su giornali specializzati come Jam e Zero, di cui sono diventato caporedattore – per dieci anni – occupandomi anche di cinema e teatro. Nel 2010 ho smesso per passare completamente dall’altra parte».
Oggi si sente più produttore o musicista?
«Ho iniziato a suonare la chitarra da autodidatta con alcune band di amici. Prima mi sono concentrato sul punk, poi sull’hardcore, e infine sono passato a sperimentare suoni al computer e rumori di varia natura. Adesso sono soprattutto un produttore».
Lavora solo con artisti milanesi?
«No, italiani e stranieri. Per chi fa il nostro lavoro, però, il problema maggiore è rappresentato dalle radio. Che non fanno sentire mai nuova musica, ma sempre e soltanto le solite cose. Non rischiano, non puntano sui giovani, sono ferme nel tempo. E così non solo non creano interesse per le proposte alternative ma desertificano il panorama distraendo l’attenzione con cazzate. Non ascolto le radio da quando non ci sono più Planet Rock e Claudio Sorge, storico direttore di Rumore. I grossi network radiofonici li incrocio raramente in auto o al supermercato e li trovo sempre fastidiosi e poco interessanti con tutto quel vociare di gossip, battute di bassa lega e brutta musica. Diseducano all’ascolto e all’uso corretto e civile della lingua e della cultura italiana».
Milano, in sintesi, che piazza è?
«C’è posto per i grandi nomi, e di sicuro è un posto dove farsi vedere, ma ci sono pochissimi locali in cui poter sentire proposte valide. Quelli storici o hanno chiuso o si sono sclerotizzati con la vecchia roba di sempre. Troppi dj set, nomi a caso, serate inutili. Non ci sono club con una programmazione, una linea, un mondo nuovo da offrire. Nessuno fa ricerca. Io la domenica all’Upcycle (via Ampère 59, zona piazzale Piola) e il lunedì da Gattò (via Casal Morrone 10), un locale e un ristorante, provo da tempo a far serate dove la gente possa trovare musica nuova, originale, di qualità. Con l’aggiunta che è gratis e facilmente gestibile, nel senso che gli show iniziano presto e finiscono presto, come a Londra. Si beve un drink, si ascolta il concerto, e volendo si torna a casa per cena».
La risposta dei milanesi è buona?

«Sì, anche se farli spostare da una parte all’altra della città non è mai facilissimo. Funzionano perché c’è bisogno di musica nuova, da sentire sempre nello stesso posto. La gente ha voglia di un ritrovo sicuro di cui fidarsi».
A Milano ce ne sono?
«Pochi, e spesso tutto è lasciato al caso. Non c’è una scena. Si aprono locali senza sapere come gestirli, si fanno sempre le solite feste, alla fine sempre un po’ noiose. I posti dove si ascolta musica interessante e stimolante a Milano oggi, secondo me, sono Sotto la Sacrestia, Arci Lo-Fi, Spazio O, Standards, Dude, Cox18 e Torchiera».
Milano è un po’ troppo provinciale?
«Sì, certo. La storia è sempre la stessa: se viene da fuori è una figata, se parte da qui e non è famoso non va quasi mai bene».
Lei come ci sta a Milano?
«Sono un po’ frustrato perché non si riesce mai a fare gruppo. Quelle poche volte che succede mi sono sentito ospite, anche se sto qui da una vita e faccio il mio lavoro da anni».
Ha mai vissuto o ha mai lavorato in un centro sociale?
«Mai. Li ho frequentati solo da spettatore. Fanno cose interessanti, ho anche provato a organizzare qualcosa con loro, ma sono troppo chiusi, devono fare mille assemblee per prendere la più piccola delle decisioni. E troppe chiacchiere rendono impossibile fare».
Dove le piacerebbe trasferirsi?
«Non lo so. Milano, in fondo, è sempre Milano. Certo, se lo facessi forse avrei più fortuna, chi lo sa? A me piacerebbe solo avere a che fare con un pubblico attento, che ascolta e non segue solo le mode».
Insomma, la crisi c’è ancora?
«Anche se tutti dicono che è finita, a me non sembra. Basta guardarsi in giro. È tutto sottotono. L’Expo è finita e non è rimasto nulla in giro».
Dove vive?
«A Chinatown, via Paolo Sarpi. Ci vivo da 15 anni, è cambiata parecchio, e adesso è diventata un bel posto. Grazie anche ai cinesi».
Andrà a votare per il nuovo sindaco?
«Certo. Lo faccio sempre. Come al solito ci sarà da scegliere il meno peggio».

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