BRUNO BUGIANI ## Milanese di Taranto, 56 anni, fioraio (ex manager)

Bruno Bugiani è nato a Taranto, è cresciuto in Alto Adige, ha girato il mondo. Sembrerà strano, ma è milanesissimo. Questo perché in 56 anni su questo pianeta, con creatività e senso pratico, Bruno ha saputo reinventarsi la vita almeno tre volte, cosa che fa di lui un cittadino di Milano a tutti gli effetti. Ha iniziato nel campo della moda, lavorando con Gianni e Donatella Versace, poi è passato in quello della musica pop con Eros Ramazzotti, e infine in quello dei fiori diventando direttore creativo di Manifesto Flowers, il suo laboratorio di allestimenti floreali.

Cominciamo dall’inizio.
«Sono rimasto a Taranto fino a 12 anni. Papà, toscano ma cresciuto lì, gestiva una fabbrica di mattoni in pomice. Mamma, altoatesina di nascita austriaca, veniva da una famiglia di albergatori. A un certo punto ci trasferimmo a Merano perché cominciammo ad avere seri problemi economici e mia nonna non ce la faceva più a gestire l’hotel da sola. Conoscevo il posto perché andavamo lì tutti gli anni a fare le vacanze, ma per me cambiare amicizie, scuola e tutto il resto fu uno shock».
E poi?
«Mi ambientai. Era tutto bellissimo, non potevo proprio lamentarmi. Dopo la seconda e terza media passai all’Istituto Tecnico Commerciale e poi mi iscrissi all’università, a Verona, per studiare Economia e Commercio. Non feci nemmeno un esame, però. A me piaceva il teatro, costruire le scenografie, disegnare i vestiti… Mi interessava la moda. In quegli anni stava nascendo il Made in Italy e adoravo Gianni Versace, avevo il suo poster sul muro della stanza. Così, dopo pochi mesi, dissi ai miei familiari che stare a Verona era inutile. Meglio lavorare in albergo a Merano. E iniziare a guadagnare qualcosa».
La loro reazione?
«Buona. Mi misero a lavare i piatti e lavorare in magazzino, in ufficio, e con i clienti. Dovevo imparare tutto, facevo di tutto. Dopo due stagioni però, a 22 anni, capii che mi stava stretto anche l’hotel e dopo aver risparmiato il necessario, mi organizzai per fare il primo grande viaggio della mia vita, il primo in aereo».
Destinazione?
«Thailandia e Sri Lanka. Mi trovai così bene che rimasi sei mesi, anche perché tramite un’agenzia di viaggi iniziai a lavorare come accompagnatore di turisti italiani da Colombo alle Maldive. Finì tutto per colpa del servizio militare, all’epoca obbligatorio, che alla fine feci a Bolzano. L’esperienza, alla fine, fu divertente e formativa».
E dopo?
«Capii meglio chi ero, lasciai la fidanzata dell’epoca, conobbi un ragazzo, e senza un lavoro mi trasferii con lui a Pavia, la sua città. Era il 1982. Iniziava la mia nuova vita».
Come?
«A Milano una cara amica di Merano, Marisa, era l’assistente del sovrintendente della Scala di Milano. Le chiesi di aiutarmi dicendole che mi sarebbe piaciuto lavorare con Gianni Versace. Lei mi disse che poteva farmi entrare come stagista esterno nella Sala Pittura della Scala, dove facevano le scenografie per gli spettacoli. Guarda caso Versace avrebbe realizzato pochi mesi dopo i costumi del balletto Dyonisus di Maurice Bejart. “Cominci così, poi fai tu”, mi disse. Accettai subito. Facevo su e giù da Pavia in treno e non guadagnavo una lira, ma ero felicissimo. Mi feci subito voler bene da tutti e dopo qualche settimane Versace arrivò sul serio. Da ragazzo viziato da mia madre e da mia nonna indossavo sue camicie e giacche, mi individuò, e quando a me e a un altro stagista greco chiese di aiutarlo per certi costumi, perché il direttore della sartoria gli stava facendo la guerra, non mi sembrò vero».
Come andò a finire?
«Dopo la “prima” del balletto, Gianni organizzò una festa  a casa sua e mi invitò. C’erano Maurice Bejart e il cast, Ornella Vanoni e Milva, e soprattutto Donatella Versace. Entrammo subito in sintonia e dopo qualche settimana, a sorpresa, mi disse che Gianni avrebbe voluto assumermi. “Vieni domani in via della Spiga”. Io andai e lei mi indicò una scrivania: “Da oggi lavori qui”. E io: “Che cosa devo fare?”. “Non ti preoccupare. Devi imparare”. Iniziai a lavorare nell’ufficio redazionale per il lavoro da fare con la stampa, ad andare sui set fotografici, a seguire le modelle, ad andare spesso a Miami Beach per le location…».
Quella degli anni ’80 era la Milano da bere: com’era vista da lì?
«Formidabile. Si pensava e si faceva tutto in grande stile. Forse si esagerava anche, ma all’epoca, nell’ambiente della moda, sembrava tutto normale. Furono anni bellissimi, intensi e spettacolari, ma anche pericolosi. Girava di tutto, ed era molto facile lasciarsi andare alle feste. Avere un impiego e dover osservare certe regle, sicuramente mi aiutava a tenere i piedi saldi a terra. Poi, mentre mi occupavo di sfilate e campagne pubblicitarie minori, Donatella mi chiese di diventare il suo “Personal Assistant”. Per me, si trattava di una crescita straordinaria. Il nostro rapporto si saldò e diventò davvero qualcosa di speciale. Peccato che dopo anni meravigliosi, sempre più travolgenti e di successo…».
Il primo ricordo di quel periodo che le viene in mente?
«Eravamo a New York, forse erano i primi anni ’90, quando Donatella mi disse di organizzare il jet privato per andare entro due ore a Minneapolis. A Paisley Park c’era una festa organizzata da Prince. Durò l’intera notte. C’erano tutte le superstar del momento. Un happening incredibile».
Dopo tutti quegli anni…?  
«Nel ’97 ci fu la tragedia di Gianni».
Cambiò tutto?
«Per sempre. Donatella prese prese in mano la direzione artistica. Le sue prime collezioni erano distanti dalle aspettative, i ritmi divennero sempre più forsennati, le tensioni aumentarono… Fino a quando nel marzo del 2000, a Los Angeles, prima di andare alla notte degli Oscar e alle varie feste con tutte le superstar che avevamo vestito, noi due litigammo malamente».
Motivo?
«Per sciocchezze. Donatella in albergo si lamentò dicendo che non avevo portato vestiti dell’ultima collezione: “Hai pensato a tutti tranne che a me”. Ci fu una lite e ci irrigidimmo nelle nostre posizioni. Eravamo entrambi convinti di aver ragione, ma in verità credo che – dopo 16 anni di collaborazione – avessimo soltanto bisogno di cambiare. Quella notte restammo in hotel ma rientrati a Milano, era chiaro che le cose non sarebbero più state le stesse. Così, dopo qualche mese di rapporti freddissimi, fui trasferito a Versace Home. Capii che dovevo guardarmi in giro. A luglio 2000 trovai un accordo per lavorare da Trussardi. Avrei iniziato a settembre».
Ed Eros Ramazzotti?   
«Firmato il nuovo contratto con Trussardi, andai in vacanza in America con il mio compagno. A Davenport mi chiamò da Milano una delle guardie del corpo di Eros per dirmi che voleva parlarmi il più presto possibile. Io lo conoscevo perché spesso aveva indossato Versace e lo avevo incontrato in più occasioni. Gli rispondo che potevamo sentirci dopo mezz’ora. Al telefono Eros mi disse subito che dovevamo assolutamente lavorare insieme».
La sua risposta?
«Non avevo esperienza nella musica e mi ero già impegnato con Trussardi. Rientrato in Italia, lo incontrai il giorno stesso. Aveva bisogno di un manager che gli curasse l’immagine, che fosse sempre con lui e magari capisse i problemi del suo ufficio… Qualsiasi cifra avessi preso da Trussardi, poteva anche raddoppiare mi disse il manager, se avessi accettato».
Molto interessante.
«Esatto. Rimasi spiazzato, Anche se fosse durata un anno avrei avuto benzina per un bel po’, quindi accettai. Iniziai il 1° settembre, proprio quando nella sua vita stava succedendo di tutto: stava chiudendo il rapporto con il vecchio manager, l’ex moglie Michelle Hunziker aveva strani legami con una maga, la sua Societa era sull’orlo di un crac finanziario… Come se non bastasse il 20 settembre sarebbe partito il suo tour mondiale, e io a stento sapevo cosa fosse un tour. Sarebbe durato sei mesi e Ken, il mio fidanzato americano, si era appena trasferito a Milano da New York…».
Morale della favola?
«Vissero tutti felici e contenti. Il tour andò molto bene, con Eros iniziammo a lavorare sull’immagine, i vestiti, rinnovare un certo modo di presentarsi in scena.  Quel tour fu l’inizio di un rapporto fatto di stima e comprensione, direi addirittura di una vera amicizia. Poi dopo dieci anni di vita e lavoro di successo insieme, tanta musica e tanti viaggi, è finito tutto».
Come?
«Non bene. Non me lo sarei mai aspettato. Non lo so con certezza. Resta il fatto che nel 2010, quando eravamo in tour in Sudamerica, Eros mi dice che voleva cambiare tante cose. Anche me. Poi ci ripensa e mi dice che invece vuole rinnovarmi il contratto. Era settembre, a dicembre invece ero a spasso.
Che fa?
«Che dovevo fare? Ho preso i miei soldi e con Ken ci siamo regalati una super vacanza di quattro mesi in Australia. Rientrati a Milano mi sono messo a cercare un nuovo lavoro. Che non ho trovato. Eravamo nel pieno della crisi e nessuno voleva uno di 50 anni come me. Ho fatto diversi colloqui, ma nulla di buono. Mi è venuta anche un po’ di depressione, lo ammetto. Ken, per fortuna, aveva il suo lavoro di grafico che andava bene e siamo andati avanti. Per me è stato veramente uno strano periodo. Poi un nostro amico fioraio di Ancona, più giovane di noi, ci dice che sta lasciando un noto fioraio milanese: “Perché non facciamo qualcosa insieme?”».
E voi?
«Sono allergico alle società, quindi diciamo di no. Pur amando e lavorando i fiori per passione e sognando da sempre di avere un negozio mio, non avevo alcuna esperienza nel business. Poi ci ripenso e mi lancio lo stesso. Leggo di tutto e mi applico come un pazzo. Grazie ad alcuni suoi buoni contatti iniziamo subito a lavorare bene. Dura un anno, però, perché scopriamo di non essere compatibili. Da lui confesso di aver imparato tanto, e anche se non ho avuto il tempo di fare nemmeno un corso, io e Ken decidiamo di andare avanti senza di lui e fondiamo Manifesto Flowers. I primi due anni siamo stati attentissimi a non sprecare un euro, abbiamo ridimensionato il nostro stile di vita, cosa che quando sei abituato bene è difficilissimo».
Paura?
«Tanta. A volte abbiamo anche pagato in ritardo qualche conto, però il lavoro con i fiori è il più bello che abbia mai fatto. E devo essere anche più bravo di quello che pensavo, perché adesso funziona e ricevo molti apprezzamenti».
Come l’ha accolta Milano in questa nuova veste?
«Quando si semina bene, tutto torna. Tanta gente mi ha aiutato e ha manifestato affetto e attenzione per la mia nuova attività. Ho ritrovato persone del giro della moda, prima fra tutte Donatella Versace. Dopo la rottura per tre anni non l’avevo più vista né sentita. Poi ci eravamo incontrati nuovamente al concerto milanese di George Michael, io ero lì con Eros. Temp dopo mi arrivò un invito alla sua sfilata e rivedendoci nel backstage finimmo entrambi in lacrime. Ci vogliamo bene davvero, anche se non siamo tornati intimi come una volta. È la persona più generosa che conosca. Poco tempo fa ho preso coraggio e, visto che mi piace fare cose un po’ particolari, le ho mandato a casa dei fiori rosa fucsia e arancioni verniciati di nero. Assieme ai fiori ho inviato una lettera in cui le raccontavo la mia nuova avventura nel mondo dei fiori e le dicevo che se avesse avuto bisogno di me, ero a disposizione».
Ha risposto?
«Dopo sei ore mi ha mandato un messaggio entusiasta con cui mi diceva che le rose erano bellissime e voleva assolutamente lavorare con me. Da allora mi ha cambiato nuovamente la vita. Mi ha fatto fare allestimenti favolosi: dai fiori per Michelle Obama alle 26 mila orchidee messe lungo la passerella della sua sfilata Alta moda a Parigi. Grazie a lei, ovviamente, sono arrivati tanti altri clienti».
Se non ci fosse stata Milano nella sua vita, adesso dove sarebbe?
«In America, o forse in Alto Adige. Chi lo sa? Di sicuro a questa città devo tutto».
I luoghi milanesi a cui è più affezionato?
Via della Spiga. Quando ho iniziato a lavorare da Versace era ancora una normale via milanese con il tabaccaio, il baretto e il negozio di fiori. Per me, il paradiso terrestre. Che non dimenticherò mai».
Un consiglio per prenderla nel verso giusto?
«Non farsi abbagliare e rimanere se stessi. Qui si può anche salire molto in alto, ma quando si cade, e prima o poi succede a tutti, ti salvi solo se sai chi sei».
Lei chi è oggi?
«Una persona che ha avuto la fortuna di fare e vedere cose incredibili in giro per il mondo. Uno che ha viaggiato in Bentley con l’autista e oggi si diverte come un pupo guidando il furgone per consegnare i miei fiori. Un uomo felice».

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