ENRICO IURLARO ## Milanese di Milano, 56 anni, ginecologo

Ginecologo figlio di ginecologo, sposato con tre figli, interista, Enrico Iurlaro è un irriducibile fan di Joe Jackson, The Who, Oasis (ma anche, chissà perché, di Jack Savoretti e Jack Jaselli). Non è poco, a pensarci bene. Soprattutto se si considera che ogni anno, nella sala parto della clinica Mangiagalli – dove lavora da 25 anni – solo lui fa nascere fra i 100 e i 200 bambini l’anno (il totale è più o meno 6500). Insomma, per farsi trovare pronti e reattivi un po’ di buona musica può aiutare. A Iurlaro, che a Milano è nato 56 anni fa e qui è cresciuto, è un professionista serio ma anche un uomo simpatico, non potevamo non chiedere come sono le milanesi – e i milanesi – quando si trovano a vivere uno dei momenti più delicati e importanti della loro esistenza: il parto. Prendetevi un po’ di tempo, le risposte lo meritano, e Iurlaro ci tiene a prenderla un po’ da lontano.

«Posso dirle che la mia è una famiglia che ha sempre avuto a che fare con i bambini?».
Prego.
«Mio nonno Errico era il ventunesimo di ventuno figli».
La bisnonna partorì ventuno volte?
«No. Il bisnonno, che era di Taranto, dopo la morte della prima moglie si risposò. Nonno Errico, invece, nel 1920 venne a Milano per cercare un lavoro, che trovò in banca, al Credito Italiano. La cosa divertente, però, riguarda mia nonna Carolina, che aveva un bel caratterino. Che la portò a fare qualcosa che all’epoca i suoi genitori non apprezzarono».
Che cosa?
«In quegli anni la Taranto bene ci teneva a far fidanzare le sue figlie con gli ufficiali di Marina. Mia nonna non solo si fidanzò con uno di loro, ma a un certo punto decise anche di mollarlo. Così, per lavare l’onta, la nonna fu costretta a sposare un impiegato che aveva visto solo due volte: mio nonno. Per fortuna l’amore nacque comunque e nacquero anche due figli, il secondo era mio padre: Franco Iurlaro».
Il ginecologo.
«Sì. Papà, che adesso non c’è più, era un ginecologo molto conosciuto a Milano. Ho due fratelli; una sorella è medico, ma l’unico ad aver seguito le orme paterne sono io. Ma questa non è una professione che si eredita. Nel senso che è così particolare il rapporto che si crea fra ginecologo e paziente che non si può assolutamente dire: “Guardi, vada da mio figlio che è la stessa cosa”. Bisogna saperlo fare, il lavoro, e saperci fare, con le persone. Sia chiaro: non sto dicendo che mi sono fatto tutto da solo».
Non lo dica.
«Il cognome di papà mi ha certo aiutato, però ho sempre lavorato sodo».
I suoi figli faranno come lei?

«Ne ho tre. Non hanno ancora l’età giusta e, per ora, non hanno alcuna intenzione di seguire questa professione. Vedremo».
Milano vista dalla Mangiagalli com’è?
«Quest’ospedale ha poco più di cent’anni e ultimamente sono cambiate tante cose. Il fenomeno immigrazione ha modificato l’identità dell’utenza e ha portato patologie che sono peculiari di alcune etnie o che da noi si ritenevano debellate da anni. Molte donne dello Sri Lanka, per esempio, soffrono di diabete che da loro è una malattia endemica. In molti casi ci siamo dovuti aggiornare per affrontare anche nuove problematiche di tipo culturale».
Tipo?
«A parte l’Aids, molto frequente nelle pazienti africane, che sono anche più spesso portatrici di fibromi uterini, ci sono le questioni religiose per le ebree, le musulmane, le cattoliche… Tutte molto esigenti».
Su cento donne quante sono straniere?

«Circa una su quattro».
In un anno lei quante ne fa partorire?
«In tutta la Mangiagalli nascono circa 6500 bambini l’anno seguite da una sessantina di operatori. Diciamo che io assisto al parto fra 100 e 200 future mamme».
Le più difficili da trattare quali sono?
«Le donne orientali in genere sono le più facili, non si lamentano, sono educate e disciplinate. Le più “difficili”, anche se non vorrei definirle così, diciamo le più esigenti, sono tante…».
Per esempio?
«Le ebree osservanti non si accontentano del giudizio del medico. Devono avere diverse controprove».
Che vuol dire?
«Le spiego citando una storia legata a mio padre, che ne seguiva tante. Lui nel corso degli anni ha fatto nascere i dieci figli del vecchio rabbino capo della Comunità di Milano. Su dieci parti ha fatto dieci cesarei. Ogni volta, però, prima di cercare una nuova gravidanza, la signora chiedeva un parere al rabbino superiore che stava a New York: voleva sapere se doveva fidarsi di mio padre e della struttura. Tutte le volte la stessa scena. Solo quando da New York la tranquillizzavano, si andava avanti».
A proposito, perché si fanno così tanti tagli cesarei?
«Le donne fanno meno figli, lavorano, chiedono di programmare e organizzare tutto, non vogliono complicazioni. Nonostante l’anestesia epidurale, molte non vogliono in alcun modo vivere l’esperienza del dolore. E così il 10 per cento dei tagli cesarei viene fatto perché in precedenza sono le donne a chiederlo espressamente. Noi accettiamo queste richieste, facendo prima una visita psicologica o psichiatrica, perché il disturbo tecnicamente si chiama tocofobia, paura del travaglio».
In totale in Mangiagalli quanti tagli cesarei fate ogni anno?
«Il 45 per cento del totale dei parti, quasi tremila. Circa 300 per tocofobia, il resto fra emergenze e patologie accertate prima o durante il travaglio».
Per un medico meglio il cesareo o il naturale?
«Beh, sicuramente il taglio cesareo programmato, se supportato da una corretta indicazione, non posso negare che mi consente la possibilità di organizzare il mio lavoro e la mia vita privata. Forse attribuirei dei rimborsi differenti per le diverse modalità del parto e il trend in ascesa del numero dei cesarei potrebbe cambiare».
Le milanesi quando partoriscono come sono?
«Il travaglio è la prova del fuoco. Bene o male tante amiche della scuola e dell’università le ho poi ritrovate in sala parto. Diciamo che le milanesi si dividono in due: le fighette e quelle con due palle così. Posso assicurarvi che quasi tutte quelle su cui non avrei puntato un euro, che pensavo fossero fighette e basta, arrivate in sala parto hanno partorito come dei treni. Bravissime. Al contrario, quasi tutte quelle in apparenza toste sono cadute alla prima contrazione. Lì ho capito che il travaglio dice veramente tutto di una donna».
I maschietti che assistono?
«Io non sono favorevole, e anche i papà non sempre lo sono. Spesso sono costretti, ormai sembra brutto non esserci. Il risultato è che spesso dobbiamo rianimarli a ceffoni».
Succede spesso?
«Purtroppo sì. A molti uomini può dare fastidio vedere la moglie che viene ricucita, dopo c’è chi ha addirittura problemi a tornare a una normale vita sessuale. Insomma, è una faccenda delicata. Oddio, c’è anche chi filma e fotografa qualsiasi cosa».
La crisi come si è sentita da voi?
«Come tutti gli ospedali di Milano anche noi abbiamo avuto un calo delle nascite. Questo c’è effettivamente stato, ma solo per le italiane; le straniere hanno continuato a figliare come sempre».
Le più prolifiche?
«Le arabe. Molte trovano nell’Ospedale un ricovero accogliente che le mette un po’ al riparo dalla vita frenetica familiare e dalle insidie di mariti molto focosi. Infatti se le inventano tutte per restare in ospedale».
Molte pazienti vengono da fuori Milano?
«Meno di prima. Da quando poi il San Raffaele ha cambiato la porta di accesso alla struttura, e quindi ha dato la possibilità ai bambini di nascere a Milano e non a Segrate, molta gente si rivolge a loro».
Il primo episodio “strano” che le viene in mente qual è?
«Potrei scrivere un libro. Il primo che mi viene in mente è di poche settimane fa, quando al pronto soccorso è arrivata una trans che protestava per come era stata operata a Bologna. Io ero in imbarazzo perché – lo ammetto – era la prima volta che ne visitavo una, non mi era mai successo».
Trans italiana o straniera?
«Brasiliana».
La visita alla fine l’ha fatta?
«Certo, ma poi l’ho demandata a chi è specializzato in queste cose».
Ha sempre lavorato a Milano?
«No. Per due anni sono stato a Lodi, dove tutti ti conoscono, ti invitano fuori, le infermiere hanno sempre il caffè pronto… In provincia il medico è ancora una specie di autorità. In città sei uno dei tanti».
Milano al momento come le vede?
«Bene. È bellissima, merito delle ultime due amministrazioni Moratti e Pisapia. Sta diventando una città attraente anche per i turisti».
Un posto del cuore a Milano?
«Via Ripamonti. Mai avrei pensato che da quelle parti ci potessero essere dei posti così belli».
Nel week end scappa o resta in città?
«Seguo l’Inter, dove vado? Pensi che da ragazzo giocavo a pallone e per una serie di rapporti di famiglia ho invitato il grande Peppino Meazza a vedere una mia partita. Volevo fare il calciatore. “Continua a studiare” mi disse alla fine. “Non smettere mai, mi raccomando”».
Quante notti lavora a settimana?
«Una a settimana».
Notti agitate?
«Succede sempre qualcosa. Fino a quando la pillola del giorno dopo non è diventato un farmaco autoprescrivibile, cioè poco tempo fa, i giovani si mettevano in fila per averla».

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