PICO RAMA ## Milanese di Milano, 25 anni, artista

Musicista, cantante e di recente anche personaggio televisivo – a Pechino, Express, su Raidue, formava la coppia degli Illuminati assieme a Yari Carrisi, figlio di Al Bano – Pico è un milanese di 25 anni molto particolare, e non solo per come si presenta fisicamente (barbetta, lunghe dreadlocks alla giamaicana, bracciali e medaglioni). «Sono cresciuto odiando Milano come una nuova Babylon, poi piano piano tutto è cambiato». Pico Rama – Pico da Pierenrico, Rama dal nome di quella che per per gli induisti è la più famosa e popolare manifestazione del Dio Supremo – è figlio di Laura Ferrato, capo ufficio stampa di tutte le reti Mediaset, e di Enrico Ruggeri, uno dei cantautori più importanti e apprezzati d’Italia.

Milano come Babylon?
«Sì. Luogo di corruzione, simbolo della società dei consumi, regno dell’ipocrisia. Nella fase dell’adolescenza ero molto in conflitto con Milano e la pensavo così. Poi piano piano ho iniziato ad amarla. In fondo se lo merita. È sempre sotto attacco».
Faccia qualche esempio.
«In Italia è senza alcun dubbio la città vittima del maggior numero di stereotipi: la capitale della moda, il tempio della cocaina, il centro della cultura altoborghese… Girando per l’Italia quando dico che sono di Milano equivale a dire che sono antipatico. A volte quasi mi vergogno. Suscitiamo antipatia e timore reverenziale, noi milanesi. La nostra città per tanta gente non è italia e non è Europa, è una cosa a parte sempre un po’ esagerata e fastidiosa».
Hanno vinto gli stereotipi allora?
«No, perché a Milano c’è una cultura sotterranea che spinge sempre avanti, verso il nuovo. Questa città ha una forza e una resistenza pazzesche. In tutti i campi. Conosco ragazzi che ci credono e addirittura creano circoli di poesia. Milano sembra così poco poetica come città che per assurdo rischia di esserlo molto».
Quindi non scappa?
«L’ho pensato in passato, mi piace viaggiare per il mondo, soprattutto India e Sudamerica, ma la mia base è qui. Milano è casa mia. Un universo che, meglio non dimenticarlo, prende la forma di chi lo abita: milanesi di nascita e d’adozione».
Adesso che aria tira?
«Ogni tanto sembra frizzante, come durante le campagne elettorali in cui tutto sembra cambiare in meglio. Poi passa. Ma non mi lamento, non lo faccio più da tempo. Ultimamente ho apprezzato il fatto che sia stata rifatta la Darsena. Per i’Expo, invece, la cosa più importante da capire sarà il finale. In città resterà la Torre Eiffel o, finita la giostra, svanirà tutto?».
La cosa che le dà più fastidio di Milano?
«La cultura della cocaina».
Mai provata?
«Mai. Mi fa schifo tanto quanto le sostanze chimiche. Ho rispetto per madre natura, per me è importante l’approccio meditativo, e non ricreativo, verso le droghe».
Causa crisi, Milano deve in qualche modo ripensare a se stessa?
«Direi proprio di sì, anche perché per me la crisi è un’opportunità per ripensare a tutto. Milano città delle opportunità è piena di poveri stagisti. C’è tanta schiavitù in città e non mi sembra dignitoso continuare così».
Umanamente la gente come interagisce qui?
«Milano funziona in maniera diversa rispetto ad altre città. Le persone hanno tante, troppe maschere. È un po’ faticoso incontrarsi, ma è ovviamente possibile».
Milano come cambia le persone?
«Le infreddolisce, ma più freddo si ha più forte e caldo può diventare il cuore. Per godersi Milano bisogna andare oltre gli occhi giudicanti di Milano».
Li ha visti spesso su di lei?
«A volte. La ricerca del mio centro spirituale, però, continua».
Ricerca faticosa?
«Fare l’asceta in India è facile, farlo qui è un po’ più difficile. Bisogna liberarsi da tutti i condizionamenti. Per capire chi siamo dobbiamo dimenticare chi pensiamo di essere. Farlo qui vale doppio. Si diventa santi subito…».
Lei è un rasta, un induista o che cosa?
«Di tutto un po’. Il rastafarianesimo è il perno morale del mio personale sincretismo religioso (d’ispirazione cristiana, il rastafarianesimo crede che l’Etiopia sia la nuova Gerusalemme, e che l’imperatore Hailé Selassié I, salito al trono etiope nel 1930, fosse in realtà Cristo venuto per la seconda volta fra gli uomini, ndr). Mi definisco mistico, naturale e vivo. Un’anima che balla in un corpo bizzarro».
Com’è la sua giornata tipo?
«È fatta di ricerca di poesia. Vedo e frequento chiunque, senza etichette e con la massima elasticità. Non giudico e non incasello. Dalle comunità arabe o sudamericane di via Padova alle varie tribù di milanesi, sto con chiunque».
Ha una rete di simili che la pensano come lei?
«Non conosco persone che la pensino come me, ma forse più in generale non esiste qualcuno che la pensi come noi. Non cerco specchi, sono contrario ai ghetti come i centri sociali o Corso Como. Io voglio conoscere gli altri da me. Sono per le nuove esperienze capaci di creare nuovi collegamenti sinaptici. Vorrei rompermi un uovo in testa in questo momento perché non l’ho mai fatto».
Buona idea. Milano è una città che integra o no?
«Direi di sì. Il secondo cognome di Milano per diffusione è il cinese Hu. Quando i miei erano piccoli se la gente vedeva un orientale o un africano in giro per strada lo indicava. Voglio dire: nonostante tutto, Milano cambia e tira dritta».
Cambierebbe altro?
«Niente. perché se volessi cambiare qualcosa partirei da un conflitto, ma io sono contrario ai conflitti. Tutto cambia da sé. Nella mia concezione del mondo non esiste il giusto e sbagliato. L’unico codice dell’universo è quello espansivo della piante, delle cose, delle persone. Tutto non può che migliorare espandendosi».
Allora diciamo che la città ultimamente si è molto “espansa”: le piacciono i nuovi grattacieli?
«Sì, li trovo divertenti. Amo anche i contrasti, tipo via Ripamonti che alla fine diventa campagna con le cascine o via Padova, che trovo sempre affascinante, vera, onesta».
In che zona vive?
«A piazzale Lodi, fra Porta Romana e Corvetto. Sono cresciuto in zona Porta Venezia».
Per realizzare sogni questa è la città giusta?
«Psicologicamente penso che sia un ostacolo, ma va benissimo: Milano aiuta ad accendere il forno alchemico, Fa venire voglia di trasformare e trasformarsi».
Qual è l’approccio migliore per accendere il “forno”?
«Non avere aspettative, godersi quello che viene. Milano come la vita dà il massimo quando si è aperti a tutto. Se si resta chiusi si schiva ogni cosa. E si sta male».

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