SARA PUPILLO ## Milanese di Roma, 43 anni, volontaria di Alfabeti Onlus

È probabile che sia anche la capitale morale d’Italia, di sicuro Milano è la capitale del volontariato (250 organizzazioni in città e 888 nell’area metropolitana per un totale di circa 50 mila persone coinvolte). Una volontaria particolarmente attiva è Sara Pupillo, 43 anni, presidente di Alfabeti Onlus, associazione che da vent’anni si occupa di insegnare l’italiano agli immigrati e che il 7 dicembre, giorno di sant’Ambrogio, è stata insignita della Civica benemerenza del Comune di Milano. La cerimonia, che si è tenuta al teatro Dal Verme, ha visto il sindaco Giuliano  Pisapia consegnare medaglie e attestati a tutti i premiati. Fra questi, ovviamente, anche Sara Pupilla. Romana di nascita, milanese dall’età di 10 anni, Sara ha un sorriso rassicurante e coinvolgente. Normalissimo.

Che cosa fate esattamente?
«Io e gli altri volontari teniamo corsi di italiano per stranieri. In vent’anni di attività Alfabeti ha avuto circa 5000 studenti, poco più di 200 l’anno».
Che tipo di stranieri?
«Immigrati di ogni provenienza, dai 17 anni in su, a cui non chiediamo documenti né altro. Per noi conta solo insegnare l’italiano e metterli in condizione di comunicare».
Quanti siete?
«Siamo settanta volontari, d’eta compresa fra i 21 e gli 81 anni. Ci sono lo studente e l’impiegato fino all’ex professoressa universitaria o il giornalista».
Dove organizzate i vostri corsi?
«In via Filippo Abbiati 4, dalle parti di piazzale Segesta, vicino allo stadio. È una zona che conosco bene: abito da quelle parti. Non pensi a una scuola, ma a un ex negozio di 60 metri quadrati, un semplice stanzone in uno stabile popolare dell’Aler nel più grande blocco di case popolari di Milano».
In che condizioni operate?
«Così e così. La strada è a senso unico, molto isolata, quindi con il tempo è stata trasformata in una specie di discarica a cielo aperto. Con quello che facciamo, però, la teniamo viva e in qualche modo “accesa”. Un movimento positivo che dura fino alle 22.30, quando terminano le nostre lezioni, che almeno nella nostra strada scoraggia un po’ lo spaccio di droga».
Come e perché ha iniziato?
«Quattro anni fa. All’inizio come volontaria, poi come presidente. Per la prima lezione, dopo due mesi di affiancamento, ero abbastanza terrorizzata».
Non aveva esperienza?
«Zero. Mai fatto niente di simile. Dieci anni prima, durante un periodo di disoccupazione, avevo soltanto preso all’Università di Siena un diploma Ditals per l’insegnamento dell’italiano a stranieri. Preso così, perché mi piace l’italiano e all’epoca non sapevo che cosa fare».
E gli altri volontari?
«Non lasciamo documenti ufficiali o altro, quindi ai volontari non è richiesto alcun tipo di formazione specifica. Si fanno due mesi di affiancamento, come dicevo prima, e quando uno è in grado di progettare e tenere una lezione è pronto e può cominciare. Abbiamo così bisogno di volontari che se dovessimo chiedere titoli non ce la faremmo ad andare avanti. Per fortuna i milanesi sono persone serie e in corsa tutti quanti ci siamo messi a studiare per fare sempre meglio».
La molla che l’ha spinta a fare quello che fa quel è stata?
«Avevo un po’ di tempo libero, avevo quel diploma – che mi sembrava uno spreco non farlo fruttare – e avevo voglia di dare una mano Per il resto, nessuno di noi ha un atteggiamento da eroe che salva il mondo. Ci piace fare».
Guadagna qualcosa?

«Niente. Anzi: tutti i settanta volontari di Alfabeti Onlus pagano 20 euro l’anno di quota associativa».
Che lavoro fa per vivere?
«Da free lance lavoro per guide e siti turistici. Fino al 2004 gestivo l’etichetta di musica classica della Sony Music, ma poi ho capito che il lavoro d’ufficio mi stava troppo stretto e ho cambiato vita. In precedenza, mi ero laureata al Dams di Bologna. Gestire da sola il mio tempo mi dà la possibilità di fare il presidente di un’associazione come questa, altrimenti con un orario d’ufficio non potrei assolutamente permettermelo».
La sua giornata tipo?
«Le prime due ore della giornata sono dedicata ad Alfabeti Onlus: mail, il coordinamento del lavoro in tre turni, organizzare l’autofinanziamento».
Come?
«Aperitivi, festicciole, incontri. Per Natale abbiamo stampato un calendario. Poi, ovviamente, ci sono le lezioni due volte a settimana».
Un po’ di tempo per la sua vita privata resta?
«Poco. Diciamo che ho una mezza relazione… Lui mi ha preso così, sapendo qual è la mia vita».
Quanti studenti si iscrivono in un anno?
«Più o meno duecento. La sera le lezioni sono aperte a tutti, la mattina sono riservate solo alle donne musulmane, e sono tenute da sole donne. Questo perché i mariti non permettono alle mogli di frequentare classi miste».
I figli dove li lasciano?
«Siccome ne fanno tanti, possono portarli da noi e lasciarli in una stanzetta con un angolo giochi».
Il livello di istruzione delle donne è basso?
«Non si può generalizzare. In zona c’è una forte presenza di egiziani, e di sicuro posso dire che per le egiziane è molto scarso. Per le marocchine meno: loro lavorano, sono più indipendenti, lasciano i mariti… Quelle di El Salvador, invece, sono quasi sempre scappate per motivi politici e hanno fatto quasi tutte le superiori. La sera c’è di tutto: dal medico che fa il muratore al pastore analfabeta».
I più difficili?
«Quelli che non sono mai stati a scuola neanche nel loro paese. Se uno non sa scrivere nemmeno nella sua lingua, studiarne un’altra è veramente difficile. Tanti di loro non sanno nemmeno tenere in mano la penna. C’è una comunità di donne eritree che sono venute a Milano 20-30 anni fa a lavorare come domestiche. Sono integrate e parlano italiano perfettamente, fanno anche le battute… Però non sono mai state a scuola e non sanno leggere e scrivere in nessuna lingua. Quando iniziano a usare la penna e provano a scrivere hanno reazioni fantastiche: sono sorprese, toccano quello che hanno scritto, lo accarezzano. In una classe ne abbiamo quattro, così abbiamo creato un corso solo per imparare a leggere e scrivere».
Come arrivano da voi?
«Grazie al passaparola. Per questo le iscrizioni da noi sono sempre aperte, non le chiudiamo mai a ottobre. Sarebbe inutile».
Iscrivendosi, alla fine, che cosa cercano?
«Sopravvivere, migliorare, guardare avanti. Pochi vogliono un diploma, l’importante per loro è capire e farsi capire».
Chetip di  lezioni fate?

«Non con la grammatica o coniugando i verbi, ma lavorando sulla situazioni della vita di ogni giorno. Per esempio, cerchiamo di renderli autonomi dal medico, insegnando come si chiamano le parti del corpo. O alla posta, al mercato, al bar… Sono lezioni in cui si cerca di far parlare loro, soprattutto».
All’inizio come si comunica?
«Con gli analfabeti a gesti. Io mi presento, cerco di far capire loro come fare altrettanto e via… Poi però ci sono anche quelli che hanno già conquistato la lingua per sopravvivere e vogliono migliorare, quelli che vogliono comunicare con i maestri dei loro figli a scuola, e quelli – cinesi e arabi – che per vivere meglio devono saper usare l’italiano per comunicare con mail e telefonini».
Gli alunni più difficili?
«Non c’è una nazionalità, direi quelli che non sono mai stati a scuola e non capiscono che cosa vuol dire coniugare un verbo, non hanno idea delle regole più elementari, che non hanno idea di cosa sia la grammatica… Tutti gli altri in un mese capiscono come funziona. sanno fare i compiti. Non dico che parlano, però vanno avanti. Seguono le lezioni».
i più bravi?
«Potrei dire quelli di lingua spagnola, ma non lo farò perché alla fine fanno tutti lo stesso errore: continuano a parlare in spagnolo… Per loro italiano e spagnolo sono la stessa cosa. Quelli dell’est – gli ucraini, per esempio – sono bravi e precisi. Anche i cinesi sono serissimi, anche se hanno qualche problema con la pronuncia».
Secondo quella che è la sua esperienza, sono di passaggio o per restare?
«Quasi tutti per restare. Vanno ogni tanto a casa, ma se trovano lavoro e si sistemano sono contenti. Si trovano bene. Milano è accogliente. Per loro è importante vivere e mandare un po’ di soldi a casa».
Mai avuto problemi perché donna?
«No, mai. Solo i ragazzini arabi di 18-19 anni tendono a non prendermi sul serio. Quando glielo spieghi in maniera decisa, e li metti in riga, allora capiscono».
Devono pagare una quota?
«Dieci euro da ottobre a giugno. Nel prezzo è compreso anche un libro. Glieli chiediamo per responsabilizzarli: se non pagassero non prenderebbero il corso seriamente. L’impegno per tutti è di due lezioni a settimana. Quella del mattino dura due ore, la sera un’ora mezza per due turni. Non abbiamo classi, ma tavoli intorno ai quali ci riuniamo nell’unico stanza. Si urla, c’è casino, ci arrabattiamo così. In tutto, di solito, siamo 40-50 persone».
Risultati?
«Buoni. Tutti migliorano. E per me è una bella soddisfazione. Quando a fine anno mi rendo conto che chi non sapeva dire una parola adesso fa discorsi, o quando vedo persone completamente diverse fra loro che usano l’italiano per comunicare, è bellissimo».
Nascono amicizie e amori?
«Sicuramente. Anche fra i volontari, credo. Con gli studenti bisogna fare attenzione a dare confidenza: tenderebbero ad attaccarsi, a chiedere aiuti che non siamo in grado di dare».
C’è chi molla in corsa?
«Pochi fanno tutto il corso, per mille motivi: c’è chi torna nel suo Paese e va altrove, chi lavora troppo e non ce la fa a seguire, chi lascia ma poi torna dopo un anno…».
Dopo il 13 novembre di Parigi che commenti ha sentito?
«Nessuno. Sanno tutto, ma non commentano anche se stimolati, nessuno si sbilancia. I musulmani sono tutti molto religiosi e osservanti, anche i più integrati. Però si sentono come se non avessero diritto a parlare».
La sede chi la paga?
«Noi, a fatica. Seicento euro al mese di affitto, senza aiuti, sono tanti».
Il Comune non vi aiuta?
«È nostro amico, il Comune. In passato ci ha proposto spazi gratuiti ma fuori dal nostro bacino di utenza e così siamo stati costretti a rinunciare. Siamo radicati nel quartiere e vogliamo rimanere in zona. Non chiediamo soldi, vorremmo solo non pagare l’affitto. Con quei soldi risparmiati potremmo organizzarci meglio e insegnare a più persone».
A lei questa esperienza che cosa ha insegnato?
«Tanto. Per me è un continuo viaggio intorno al mondo. Loro non sanno l’italiano, ma sanno un sacco di altre cose e quando troviamo il modo di comunicare c’è uno scambio prezioso di umanità. Fatto di abitudini diverse, sofferenza, sogni… Vita».

 

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