STANISLAO PARABIAGO ## Milanese di Milano, 89 anni, pensionato

Ha quasi 90 anni, il milanesissimo Stanislao Parabiago, e di sicuro è più sveglio e lucido di tanta gente nata molto dopo di lui. Lo incontro in un bar del centro, alle 9 di mattina, è sorridente e ha una gran voglia di parlare. Lo dice subito, che è un chiacchierone, come dice subito che non è affatto stufo di stare da queste parti: «Altri 50 anni su questo pianeta non mi dispiacerebbero. Sono del 1927, durare a lungo è di famiglia». Stanislao Parabiago ha una pensione da amministratore delegato (guidava la Irex, società italotedesca attiva nel settore della panificazione), usa i mezzi pubblici e va due volte a settimana in palestra.

Come se la passa Milano secondo lei?
«Secondo me, bene. Posso dirlo subito, visto che l’età mi aiuta?».
Certo.
«Non è vero che una volta si stava meglio. Milano, per esempio, adesso è molto più bella di prima. Io di carattere sono ottimista e guardo sempre avanti: sono per la modernità. Anche se i suoi frutti oggi non fanno tanto bene alla vita delle persone perché spesso isolano. Io ho smesso di guidare da anni e vado in metro: ha visto che nessuno si guarda più in faccia? Tutti con gli occhi sul telefonino. Che pena…».
Che città è per un pensionato?
«Non posso lamentarmi. Io da 15 anni ho una buona pensione e vivo bene. Sono separato da trent’anni e con la mia ex, per fortuna, ho un bel rapporto. E poi da quando ho smesso di lavorare non mi sono mai annoiato. Una decina di anni fa non sapevo cucinare nemmeno un uovo al tegamino, poi mia figlia mi fece una sorpresa: mi regalò un corso di cucina e adesso ogni giorno preparo le mie cose in maniera estremamente elaborata. Insomma, mangio poco ma bene, e mi diverto, anche se mia figlia è vegetariana e più di tanto, quando la invito, non posso fare. Pensi che ogni tanto cucino anche per la primaria del reparto cardiologico dove vado a fare gli esami».
I mezzi pubblici come li trova?
«Ottimi. Se vedo qualcuno che non paga o sporca intervengo e glielo dico subito. Non è giusto fare così. L’Atm dovrebbe assumere più controllori: ci sarebbe meno evasione e quindi più entrate. In poco tempo pagherebbero tutti».
L’idea di una Milano sempre più multietnica le piace?
«Sì, ma non bisogna esagerare. Bisogna accogliere, ma non bisogna stravolgere l’identità della città».
È pro o contro la costruzione della moschea?
«Che la facciano, ci mancherebbe. Quella di via Stelvio non va bene, è un garage. Idem il vecchio Palatrussardi. Però bisogna fare controlli e garantire la sicurezza. Non mi piacciono quelli che si coprono la faccia. Una società vive bene se ci sono regole e rispetto reciproco».
La città è cambiata troppo secondo lei?
«È rimasto poco del passato, ma è anche giusto che sia così. Milano si è sviluppata ed è normale che arrivi tanta gente da fuori. Bisogna guardare al futuro senza paura. Se non avessimo accolto gli altri Milano sarebbe rimasta una piccola città. Essersi mischiati con gli altri è stato un bene per tutti».
Conosce il dialetto milanese?
«Certo, ci tengo. Le mie figlie, però, non lo parlano. Quando erano piccole non si usava, sembrava brutto. Si doveva comunicare solo in italiano».
Pisapia sindaco le è piaciuto?
«Non male. Vediamo il prossimo che cosa farà».
Renzi premier?
«È giovane, sta cercando di cambiare un po’ tutto. A me non dispiace».
E Salvini?
«È uno che non ha mai lavorato in vita sua. Lo trovo pericoloso, non mi va proprio giù. Come Berlusconi, che detesto da sempre. Uno come lui se non avesse avuto appoggi politici non sarebbe mai riuscito a fare tutto quello che ha fatto, in politica e no. Per me c’è di mezzo la mafia, come si fa ad avere tutto quello che ha senza aver frequentato giri strani?».
Chi viene da fuori che cosa deve capire di Milano?
«Che qui si va dritti al sodo, non si perde tempo, si fa. C’è un problema? Qui si trova la soluzione. Questa è Milano, una città per tutti. Spesso ho lavorato con gente del Sud – Napoli, Palermo, Catania etc. – e quasi sempre qui da noi hanno potuto dimostrare di essere molto bravi, spesso i migliori».
Il periodo che ricorda con maggior piacere?
«Il Dopoguerra, quando i tedeschi mi affidarono l’azienda. C’era da fare tutto, o quasi: costruire l’impianto nuovo a Paderno Dugnano, che c’è ancora, e seguire per anni l’iter di tante leggi legate al mondo della panificazione».
Come ha iniziato?
«Vendendo macchinari d’ufficio. Non sono un tecnico, però ho sempre lavorato tanto e mi sono fatto apprezzare».
Quando ha cominciato a lavorare?
«Nel ’44, a 16 anni. Bisognava portare a casa un po’ di soldi e non mi sono tirato indietro. Per prendere la maturità classica ho frequentato le scuole serali».
In che quartiere è nato?
«Sono nato a via Bocchetto, vicino a piazza Cordusio. Poi con i miei genitori ci siamo spostati a via Santa Maria la Porta 12, dove c’è la pasticceria Marchesi. Qui rimasi durante tutti i bombardamenti dell’estate ’43, quelli che fecero 2400 morti».
Quali sono i posti in città a cui è più legato?
«Oddio, è cambiata così tanto la città. Potrei dire via Vigevano, dove c’erano gli uffici dell’azienda, ma adesso niente è com’era. Corso Como, per esempio, non lo riconosco più. È un’evoluzione naturale, non discuto, ma fa impressione. Se poi penso al Bosco Verticale, penso che noi milanesi siamo grandi perché se c’è da cambiare, andare avamti, cambiare, buttiamo giù e rifacciamo tutto. Rischiamo. Milano corre sempre, e non la fermi mai. Questa è la sua forza».
Se le avessero chiesto di andare a lavorare in Germania avrebbe accettato?
«Non lo so, dipende. Forse sarei andato, anche se – pur stimandoli – non li ho mai invidiati. Li conosco bene, i tedeschi, parlo per esperienza diretta. È bello lavorare con loro, ma vivere lì è un’altra cosa. Noi italiani siamo diversi. Mi permetto di dire: migliori».

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