Giada è nata a Genova 41 anni fa, è milanese da nove, lavora come anestesista presso l’ospedale Macedonio Melloni. Giada aveva capito tutto fin da bambina, quando – se qualcosa non andava come voleva lei – “minacciava” i genitori: «Guardate che io me ne vado a Milano». Alla fine, anche senza arrabbiarsi, Giada l’ha fatto. E non per lavoro, come (quasi) tutti gli altri che vengono da fuori.
Tutto a posto da bambina? Infanzia normale?
«Certo. Da manuale. Quando da piccola mi arrabbiavo e dicevo che me ne sarei andata a Milano, in realtà non c’ero mai stata. Ero solo fissata con il Duomo, che avevo visto in Tv, e con la Scala, dove sognavo di ballare, visto che sgambettavo in una scuola di danza classica».
Quando l’ha scoperta di persona?
«MI ricordo addirittura la data: 8 dicembre 1990, quando venni a trovare per la prima volta quello che per anni sarebbe stato il mio fidanzato. Quel giorno, con la neve e gli addobbi natalizi, Milano sembrava una cartolina. Rimasi molto colpita dalla “mia” città. Da allora fino al ’98, quando finì la storia con il mio ragazzo, feci la spola con Milano quasi tutti i mesi».
E dopo?
«Non sono più venuta per un paio di anni, anche se ho mantenuto l’amicizia con un altro milanese. Che poi – il destino è destino – è diventato mio marito: Filippo. Ci siamo messi insieme nel 2000 e dopo un po’, per amore e per scelta, mi sono trasferita. Ho lasciato l’ospedale dove lavoravo a Genova e sono venuta a Milano. Ci siamo sposati nel 2006. In Liguria, però. Sul mare».
Secondo lei che cosa bisogna capire per entrare subito nello spirito di Milano?
«Non bisogna farsi travolgere da ritmi forsennati e stress, ma farsi contagiare dall’energia vitale che si respira – insieme alle tante schifezze – e godere di tutti gli stimoli che la città è in grado di offrire. E mai sentirsi di passaggio».
Qual è la differenza maggiore fra milanesi di nascita e d’adozione?
«Chi è nato e cresciuto qui sicuramente si mostra più sicuro, pieno di certezze, molto convinto. A volte a ragione, altre a torto… Comunque, mai avrei immaginato che a Milano vivesse così tanta gente proveniente da ogni parte d’Italia e del mondo».
Lei come è cambiata da quando è qui?
«Forse ho più cura della mia persona, seguo di più la moda, gli spettacoli, le mostre. Grazie a Milano ho scoperto la mia parte creativa. Qui mi sono appassionata al design, per esempio».
Dopo quanto si è sentita a casa?
«Dopo pochi mesi. Le dirò di più: se dovessi tornare a Genova per un qualsiasi motivo, Milano mi mancherebbe tanto quanto mi è mancata Genova all’inizio. E solo all’inizio».
L’aspetto peggiore di Milano?
«La cosa che soffro di più è la sensazione invernale di vivere in una scatola grigia sempre chiusa: in ufficio, in metro, nel traffico. Per fortuna, c’è tanto di tutto e quindi passa. A Genova, che pure mi manca per via del mare e della mia famiglia d’origine, dopo un po’ mi annoiavo».
Dove porterebbe un’amica genovese di passaggio in città?
«A piazza Sant’Eustorgio, a Brera, in giro per negozi… Cercherei di farle capire che questa città per la ricchezza dell’offerta può farti sentire ovunque tu voglia».
Dal punto di vista lavorativo c’è grande differenza fra Genova e Milano?
«Genova non ha tanti centri di eccellenza come Milano, ma il livello qualitativo è lo stesso. In altri ambiti professionali so bene che se vuoi lavorare ai massimi ivelli solo qui puoi farlo. Per un medico come me non è così. A Genova avrei fatto le stesse cose».
I malati a Milano sono diversi dagli altri?
«C’è di tutto, più o meno come in tutti gli ospedali. Colpiscono, però, quelli della Milano multietnica con cui spesso è impossibile comunicare».
In che modo la città è stata più generosa con lei?
«Ho avuto tanto, professionalmente e umanamente. Ho conosciuto belle persone a cui voglio bene e che ormai fanno parte della mia vita».
Più avara?
«Mi ha tolto la famiglia d’origine e le vecchie amicizie, che mantengo a fatica. C’è stata una selezione, ma è normale. È la vita. Non mi lamento, se non per il mare… Appena posso scappo».
Le prime tre cose che ancora la sorprendono di Milano?
«Perché tutte le donne tengono la borsa e il cellulare allo stesso modo? Perché la gente invece di camminare, corre? Perché nessuno conosce i vicini di casa? A Genova sono cresciuta in un palazzo, se non avevo il sale o lo zucchero, per me era normale andare a chiederlo alla vicina. Qui non l’ho mai fatto. I rapporti quotidiani, anche superficiali, che ti fanno sentire parte di una comunità, qui non esistono. Ed è un peccato. Non è perdita di tempo, negli altri tutti noi potremmo scoprire qualcosa di sorprendente».
Si sente una genovese che vive a Milano o una milanese d’origine genovese?
«Oddio… Adesso una milanese d’origine genovese».
Un milanese per marito, dopo un po’, com’è?
«Questa è facile: l’unico che riesco a immaginare».