Per la seconda volta Roberto Calderoli è stato condannato per le offese razziali a Cecile Kyenge durante un comizio nel 2013.
Roberto Calderoli è stato condannato a 7 mesi con pena sospesa e nessuna menzione nel casellario giudiziario dai giudici nel processo riaperto a Bergamo per i reati nei confronti dell’ex ministro dell’Integrazione, Cecile Kyenge.
Calderoli, che attualmente ricopre la carica di Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, è stato assente all’ultimo processo.
Anche il giorno del verdetto, che è stato il 1° giugno, Cecile Kyenge, vittima del reato, non si è presentata in tribunale.
Il fatto è avvenuto una decina di anni fa a una festa organizzata dalla Lega di Treviglio. Allora il senatore leghista definì il ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta un “orangutan“.
Dopo essere stato condannato in appello, il processo a Calderoli è stato rifatto dalla Cassazione perché il Tribunale di Bergamo non ha riconosciuto il legittimo impedimento del politico, che ha dovuto sottoporsi ad intervento chirurgico.
Si prevede ancora una volta un processo di secondo grado, ma su di esso incombe la minaccia della prescrizione.
Il riferimento in questione riguarda il Comizio del luglio 2013, avvenuto durante una festa leghista a Treviglio.
La registrazione audio del Comizio è ancora accessibile online. Durante l’evento, Calderoli si è rivolto a una folla di 1.500 sostenitori del Carroccio e fece un’osservazione alquanto inquietante: “Ogni tanto apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto”.
L’ex ministro, oggi eurodeputato Pd, commento via social la sentenza, affermando che “giustizia è stata fatta, perché il razzismo ha un prezzo alto da pagare”.
La sua soddisfazione per la decisione del tribunale di Bergamo fu palese, in quanto confermò che si può e si deve combattere il razzismo con mezzi legali, civili, civici e politici.
Trovare il giusto percorso per un verdetto non fu un compito semplice. Nel febbraio del 2015 la Commissione Autorizzazioni del Senato si pronunciò a favore di Calderoli perché le dichiarazioni sono state rese “da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni“.
I leghisti si difesero, sostenendo che i commenti erano critici nei confronti della politica migratoria del governo Letta.
Questa fu anche una posizione condivisa da quattro senatori del Partito Democratico, che era lo stesso partito politico di Kyenge.
Risposero dicendo che “è come se quell’insulto fosse stato fatto a un intero Paese per la seconda volta”.
Anche Claudio Moscardelli, esponente del Pd, difese Calderoli affermando che “le accuse relative all’istigazione all’odio razziale sono infondate, visto il contesto politico in cui sono state pronunciate le sentenze in questione e vista anche la configurazione della Lega, dove operano anche diverse persone di colore.”
Questa dichiarazioni causò molte polemiche, che iniziarono nel Pd, con il presidente Giorgio Napolitano che criticò anche il suo stesso partito.
L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani condanno tutto ciò, definendolo “scioccante e inaccettabile”.
Durante il voto sull’autorizzazione a procedere in aula sulla riforma costituzionale dell’allora governo Renzi, Calderoli presentò una quantità eccessiva di emendamenti, che ammontavano a mezzo milione.
Di conseguenza, il Pd, allora guidato da Luigi Zanda, chiese un rinvio della decisione per la “delicatezza della questione”.
La motivazione di questa richiesta fu quella di consentire a ciascun senatore di essere informato, valutare e riflettere sulla questione.
Tale richiesta venne però accolta con diniego, nonostante fossero già trascorsi sette mesi dal passaggio in giunta. Anche in quel momento, la dichiarazione di Zanda sembrava insincera.
Per rimediare alla situazione, fu messo in atto un piano dividendo il voto. Ciò consentiva l’approvazione della calunnia, ma non l’incitamento all’odio razziale.
Con la causa legale indebolita, Calderoli ritirò le sue proposte di emendamento. Il tribunale di Bergamo fu costretto a chiedere l’ausilio della Corte Costituzionale, adducendo questioni di giurisdizione, per procedere con le accuse formulate dai pm.