Questa ragazza ci sa fare con i fiori (li sceglie e li compone in maniera sempre originale), ci sa fare con la voce (ha inciso da sola un disco pop-jazz, Arrivi, e ha fatto sei concerti al Blue Note), ci sa fare con gli esseri umani (e questo male non fa, a Milano come altrove). Si chiama Rosalba Piccinni, è nata 45 anni fa ad Almè, paesino della Val Brembana in provincia di Bergamo, e da una vita fa la fiorista. Vive e lavora a Milano dal 2009 e da allora, dando spazio alla sua passione per il canto, si è trasformata in cantafiorista (ha un negozio di fiori in via Broggi 7 e ne ha aperto da poco un altro in via Salasco 17, Potafiori, dove si può anche mangiare e bere). Leggere questa intervista vi porterà via al massimo 4-5 minuti, più o meno quanto una canzone. Che in questo caso non suonerà mai come una canzonetta un po’ scema.
Com’è finita a Milano?
«Io e mio marito Omar lavoravamo insieme nel nostro negozio di fiori, un giorno ci siamo guardati in faccia, e abbiamo finalmente trovato la forza di chiederci dove volessimo andare come coppia. C’eravamo allontanati. Ci siamo presi un po’ di tempo per capire che era finita e poi ci siamo lasciati. Senza sbranarci, però. Alla fine non ci siamo nemmeno separati legalmente. Siamo rimasti amici».
E il lavoro?
«A quel punto ho pensato di cambiare anche quello e aprire uno spazio tutto mio a Milano, città che non conoscevo ma che mi ha sempre attratta. Senza allontanarmi troppo da Bergamo, avrei potuto organizzarmi a Brescia, ma non è che l’idea mi entusiasmasse. Per me Milano era come una specie di New York. Quindi mi metto a cercare il locale, lo trovo in via Broggi, e come una pazza, senza conoscere nessuno, mi lancio. Proprio come adesso con il secondo spazio in via Salasco (il nome Potafiori gioca sul doppio significato di pota: in italiano dal verbo potare mentre in bergamasco si usa per imprecare e per indicare stupore e impotenza, ndr), che è più grande, ha il bar, la cucina, lo spazio per la musica e gli incontri… Mi lascia fare una coccola?».
Come?
«Vorrei nominare lo chef, un ragazzo giovane e del Sud. Bravissimo. Si chiama Giorgio Bresciani. È di Caserta. Da quando è qui temo di essere un po’ ingrassata».
Quando ha iniziato a fare la fiorista?
«Vengo da una famiglia modesta e numerosa: sono la settima di otto figli, papà Rizziero faceva l’operaio, mamma Rosina la casalinga. Lui, pugliese, conobbe e sposò lei in Svizzera, a Neuchatel, dove la famiglia di mamma emigrò quando lei aveva pochi mesi. Nati i primi due figli, i miei rientrarono a Bergamo. Qui, per portare un po’ di soldi a casa, mia sorella Mirella iniziò a lavorare a 9 anni, io a 13, dopo la terza media. Ricordo che passai quattro anni dietro un bancone a fare caffè e cappuccini, cosa che poi mi è tornata utile adesso… A 17 lasciai il bar per un posto da commessa in un negozio di fiori. Avevo trovato la mia dimensione».
E la musica?
«Avrei voluto fare il Conservatorio, ma purtroppo a casa non c’erano i mezzi. Così da 6 a 17 anni ho sempre fatto parte del coro della parrocchia, poi ho partecipato a concorsi canori, ho fatto serate di piano-bar blues e rock, e ho cantato con le prime band fino a quando, a 33 anni non ho scoperto il jazz. Che adoro».
Dopo quasi sei anni, che idea si è fatta dei milanesi?
«Mi piacciono. Non ti chiedono da dove vieni, e se lo fanno è solo per riconoscerti credibilità. A Bergamo non è così. Io ero la figlia dell’operaio, con la terza media, quindi quella da valutare con un po’ di sufficienza. Sono piccole cose, adoro Bergamo, ma le faccio un esempio così mi spiego meglio: una sera incontro in una pizzeria una mia cliente, sempre molto gentile e piena di complimenti. Faccio per andarle incontro, le sorrido, ci guardiamo negli occhi e quella si gira completamente dall’altra parte per non salutarmi. Ero una fiorista… Ecco, Bergamo è un po’ classista. A Milano invece conta solo quello che sai fare, e se lo fai bene, sei considerata. C’è meritocrazia. A nessun importa come sei, quanto hai studiato, di chi sei figlia o moglie. O almeno non così tanto da escluderti se non sei come loro. Infatti sto conoscendo persone eccezionali che mi offrono straordinarie opportunità di crescita».
Ho letto. Ha messo i fiori e cantato al matrimonio di Tomaso Trussardi e Michelle Hunziker, ha fatto altrettanto alla cena milanese di autofinanziamento del Pd di Matteo Renzi, per le cene aziendali di Carlo Pesenti ex Italcementi…
«Sono fortunata. Faccio anche serenate a casa di gente incredibile».
Serenate?
«Io canto sempre, ovunque, compresi i miei negozi. Con il passare del tempo tanta persone qui a Milano mi hanno chiesto di fare serenate ed è una cosa che faccio con grande piacere. Quasi sempre va a finire che piango anch’io».
Come funziona?
«Vado con il mio bel mazzo di fiori e i miei due musicisti: un chitarrista e un violoncellista. Entriamo in casa con la complicità del fidanzato quasi marito, e sorprendiamo la destinataria cantando tre-quattro-canzoni. Lo facciamo quasi sempre di sera, e spesso la troviamo sul divano a guardare la Tv. Lo stupore e la gioia sono così grandi che nessuna si trattiene: è sempre un fiume di lacrime».
Il pezzo forte?
«Classici di ogni tipo e Con lui sto, un mio brano. Suona bene, testo profondo. tutto sull’amore. Cantare vuol dire tanto per me, in certi momenti mi ha aiutato tantissimo».
Tipo?
«Vivere in un appartamento di 80 mq in dieci con un bagno non è stato facilissimo. usare i vestiti dei miei fratelli quando i coetanei vestivano da fighetti, la fatica di lavorare 15-17 ore al giorno…».
I suoi sette fratelli oggi che cosa fanno?
«Uno che faceva il prete è morto l’anno scorso. Due sono manager d’azienda, una dopo aver cresciuto i figli adesso fa la promotrice di elettrodomestici, gli altri fratelli fanno gli operai. Il mio primo nipote è diventato prete anche lui».
Figli ne ha?
«Non sono arrivati, ma mi sarebbe piaciuto averne».
Qual è la cosa più importante che le ha dato finora Milano?
«La possibilità di esprimermi a fondo e raccontarmi per quella che sono. A Bergamo non gliene fregava niente di me, eppure con i fiori già vent’anni fa facevo cose belle e mai viste prima: con il cartone, la fibra ondulata, la paglia… A Milano, però, non devi sbagliare. Se non sei veloce e arrivi con un minuto di ritardo, sono guai. Però è stimolante, questa frenesia milanese, avevo bisogno di questo pepe».
Com’è arrivata a cantare al Blue Note?
«Grazie a Riccardo Vitanza, il manager che ha curato la promozione del mio disco. Così in due anni e mezzo ho fatto sei concerti sempre con il “tutto esaurito”. Che brava… (ride, ndr)».
Riscontri nell’ambiente musicale?
«A Milano tutti sanno che esisto, ma sto ancora spettando il principe azzurro che mi porti via…».
Parteciperebbe a un talent?
«Adesso no. Mi piacerebbe andare a Sanremo, fare un altro disco, cantare in tanti bei posti».
Il brutto di Milano in questi cinque anni?
«Qualche delusione da presunti amici o conoscenti, ma niente di più. Per il resto, Milano mi va benissimo».
A un’aspirante cantafiorista che vuole trasferirsi a Milano, oggi che cosa suggerirebbe per godersela al meglio?
«Di buttarsi e affrontare con forza e coraggio tutto quello che la città sa offrire. Che è veramente tanto: è la più internazionale e aperta d’Italia. Ci vogliono buone basi, però, per reggere i ritmi milanesi. Io ho lavorato undici anni da commessa nel negozio di una signora incredibile che mi ha insegnato disciplina e serietà. Stanotte me la sono anche sognata… Ero sempre disponibile per lei, anche perché volevo farmi accettare a tutti i costi, da lei e dal mondo. Dicevo “Sì, padròn” tutto il giorno. Una volta funzionava così. Nel ’97 mi ha venduto il negozio. Ho chiesto un prestito alla banca ipotecando la casa di mia suocera. È andata bene».
A Bergamo adesso come la vedono dopo la sua “conquista” di Milano?
«Adesso mi trattano come una specie di diva… Sono contenta per mamma, per lei è un riscatto. Ma io sono sempre stata così, non sono cambiata neanche un po’: non ho mai mollato i miei sogni».
A quanta gente dà lavoro?
«Una dozzina».
La crisi?
«L’ho sentita, come tanta altra gente. Si fa fatica, oggi, anche se qualche segnale di ripresa mi sembra che ci sia. A luglio l’ho detto anche alla Camera».
Alla Camera dei Deputati di Roma?
«Sì. Io e altri diciannove ideatori di nuove formule professionali siamo stati invitati per raccontare le nostre storie. Avevamo tre minuti a testa per dire tutto. Mi sono presentata – nome, cognome – ho detto che sono una fiorista e un’ex barista, una che non si arrende mai. Poi mi sono messa a cantare. Sono rimasti a bocca aperta. Pota, che bello…».