ALEX CHEN ## Milanese di Milano, 20 anni, studente

Alex è nato a Milano da genitori cinesi ed è orgoglioso delle sue radici come della sua città e del suo Paese: Milano e l’Italia. Vivere qui, però, non è stato sempre facile. Per un paio di anni, quelli difficili e complicati dell’adolescenza, Alex ha sofferto per le battute razziste dei suoi coetanei. Non è uscito più di casa, spesso non andava a scuola, è stato bocciato, e a fatica è arrivato al diploma. Adesso si è iscritto all’università e prima dell’inizio delle lezioni, Alex ci ha spiegato due-tre cose sulla realtà dei ragazzi “banana”, come si autodefiniscono i ragazzi cinesi, bianchi dentro e gialli fuori.

«Noi milanesi d’origine cinese ci chiamiamo così, “banana”, perché in fondo è quello che siamo: bianchi dentro e gialli fuori. È qualcosa a cui nessuno pensa, ma rappresentiamo un nuovo modo di essere milanesi: non solo cinesi, non solo italiani».
Com’è stato crescere da “banana”?
«All’inizio, da bambino, non capivo, quindi bene. Il fatto che alle elementari i miei compagni mi prendessero in giro lo ritenevo normale, roba da piccoli. A parte qualche battuta sugli occhi a mandorla o sui cani al forno da mangiare a pranzo e a cena, non ricordo niente di spiacevole. Non provavo fastidio. Quello è iniziato all’ultimo anno delle medie, quando ho iniziato a sentire avversione per la mia etnia, ostilità verso il diverso, sofferenza per le battutacce stereotipate. Per un ragazzino come me era un po’ pesante».
Nessuno interveniva?
«Alle superiori c’erano compagni chi mi dicevano di fregarmene e altri che ascoltavano e stavano zitti. L’ho vissuta male queste cosa, anche perché avevo voglia di sentirmi parte di un gruppo. Avevo paura di quello che poteva succedere in classe, ma anche a ricreazione, visto che ero l’unico cinese della scuola. Mi sentivo osservato, in imbarazzo, così ho smesso di frequentare le zone comuni. Sono cresciuto dalle parti di viale Certosa e la scuola, l’Iis Galileo Galilei, è dalle parti di piazza Gramsci. I primi due anni mi sono sentito solo, preferivo stare a casa a guardare la Tv piuttosto che uscire con gli altri ragazzi. Non volevo farmi vedere debole, così ho iniziato a fare il cretino».
Cioè?
«Durante il secondo anno ho iniziato a saltare la scuola. E alla fine ho perso un anno. Dopo aver cambiato classe le cose sono andate un po’ meglio. Ho trovato i compagni giusti e ho capito che non sono tutti così e che il razzismo è solo ignoranza. Ricordo lo sconforto quando dicevo ai miei genitori che c’era qualcuno che mi prendeva in giro perché cinese, e loro mi dicevano di non preoccuparmi, di non ascoltare, di stare tranquillo. Avevano ragione, ma non è stato facile».
I suoi genitori quando sono arrivati in Italia?
«Trent’anni fa. In pratica, furono tra i primi a emigrare a Milano dal sud est della Cina, più o meno dall’area di Shanghai. All’inizio per loro fu difficile perché si separarono: prima arrivò mia madre, poi dopo un anno mio padre. Mamma non conosceva l’italiano, e per impararlo guardava il dizionario e ripeteva per giorni ogni parola che studiava, cercando di parlare con chiunque».
Adesso che cosa fanno?
«Dopo aver lavorato per qualche anno come cuochi, papà adesso insegna kung fu cinese – disciplina He Tan Pai – in una palestra italiana di via Piero della Francesca. Lui rappresenta la trentasettesima generazione di insegnanti d’arte marziale della famiglia. Io la trentottesima».
E sua madre?
«Lei da tempo ha un negozio di abbigliamento».
Una curiosità. I negozi cinesi che vendono abiti sembrano sempre deserti: a chi vendete la merce?
«A grossisti cinesi e arabi, e agli italiani che vendono sulle bancarelle o in piccoli negozi. Mamma l’attività ce l’ha in via Bramante, una traversa di via Paolo Sarpi, e io spesso le dò una mano».
Si senti più cinese o italiano?
«Metà e metà. Sono nato qui, ma sento molto le mie origini. I miei genitori mi hanno inculcato tanto cultura cinese, ma mi sento anche italianissimo».
Parla cinese?
«In casa l’ho sempre parlato con mamma e papà, mentre con mio fratello, più grande di me di due anni, ho sempre usato l’italiano. Con il cinese diciamo che sono al livello base. Quando sono in Cina tutti si accorgono che sono “straniero”. Un “banana”…».
Quante volte è stato in Cina?
«Sei volte, più o meno per sette-otto settimane. Mi sono sempre sentito a casa, anche se nei modi di fare siamo ovviamente diversi. Come a Milano, del resto».
In che senso?
«Il cinese rispetta il passato e la tradizione, è molto attaccato alla famiglia, è molto formale ed educato con i parenti. Molto più degli italiani».
Rispetto ai luoghi comuni sui cinesi che cosa è sicuramente falso?
«Non tutto. Che la comunità di Prato sia molto chiusa, per esempio, è vero. Quella di via Paolo Sarpi a Milano è più aperta, ma il muro dei cinesi nei confronti della società che li ospita è reale. È vero anche che i cinesi lavorano tanto. È falso che mangiano i cani, succede solo nelle zone rurali e nei ristoranti specializzati. I cinesi che non muoiono mai, come si dice da anni, è una sciocchezza semplice da spiegare: a una certa età, se possono, tornano a casa».
Dove vorrebbe vivere?
«A Milano, è la mia città. La Cina è più difficile, la conosco meno. In fondo ci sono stato poche volte. Lì, a volte, mi chiedono se sono coreano…».
I suoi amici sono più italiani o di origine cinese?
«Forse più italiani».
E le fidanzate?
«Tutte italiane».
Se un giorno dovesse decidere di sposarne una?
«Nessun problema. I miei genitori sono molto aperti. Se dovesse accadere non sarebbe un problema. Ormai a Milano cominciano a esserci tante coppie miste».
Più belle le cinesi o le italiane?
«Tutte e due».
Il bello di Milano?
«La storia, l’arte, la cultura. Le persone, nonostante siano sempre di corsa».
Il brutto?
“Lo stress. I pregiudizi. Quelli che non pensano agli altri. I borseggiatori…».
Le hanno mai rubato qualcosa?
«Il cellulare. Una brutta storia… ho usato le arti marziali».
L’ha steso con il kung fu?
«Sì, ma non volevo. Ero spaventato… È accaduto la scorsa primavera alla stazione Centrale. Un ragazzo è venuto a chiedermi una moneta, mi ha sfilato il telefonino dal giubbotto ed è scappato. L’ho raggiunto e mi ha dato un pugno. Per evitarlo, senza pensarci, ho fatto una mossa particolare e gli ho rotto un braccio. È fuggito urlando come un pazzo. Mi è dispiaciuto, non l’avevo mai fatto prima. Mio padre quando l’ha saputo si è arrabbiato. Non si devono mai correre rischi, mi ha detto. Non si può mai sapere quello che può succedere. Se avesse avuto un coltello, una pistola?».
C’è un un posto in città a cui è particolarmente legato?
«Via Montello, alla fine di via Paolo Sarpi, dove c’era il primo negozio di abbigliamento di mia madre. Lì ho trascorso gran parte della mia infanzia, giocando in cortile con gli amici, che ancora frequento. L’infanzia è il momento più bello della mia vita, per ora la penso come Giovanni Pascoli».
Il sogno della vita qual è?

«Portare avanti la tradizione delle arti marziali imparate da mio padre, formare una mia famiglia, finire l’università. Dopo il diploma all’Istituto grafico e comunicazione mi sono iscritto alla facoltà di Lingue per studiare cinese e inglese. E poi mi piacerebbe fare qualcosa con la musica. Adoro il K-Pop coreano, quello di Gangnam Style di Psy: ho anche inciso quattro brani cantati in quella lingua e ho preso parte a qualche serata»
Quali cantanti le piacciono?
«Tutti quello del K-Pop e Justin Timberlake, Michael Jackson, Jackson Five, Pink Floyd, Beatles…».
Tra gli italiani?
«Elisa e soprattutto Nek. Quando ero un bambino mio padre lo adorava. Impazziva per canzoni come Lascia che io sia e Laura non c’è. Le cantava a squarciagola e con il suo accento cinese faceva morire dalle risate».
A Sanremo andrebbe?
«Certo. Il mio genere, però, è il K-Pop. Se potessi partecipare esibendomi in coreano…».

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