Carolina Sanchez è nata e cresciuta a Medellin, in Colombia, ha 38 anni, non è venuta a Milano per sistemarsi, e non è nel business del narcotraffico («Non ha idea di quante volte la gente mi faccia battute sul cartello della cocaina. Un po’ come se a un italiano chiedessero sempre se è un mafioso…»). Sposata – bene – con un notaio di Palermo trapiantato a Milano, Carolina è mamma di una bimba di 5 anni e titolare di un piccolo marchio, Los Trapitos al Sol (I segreti al sole), che produce costumi da lei stessa disegnati. E venuta in Italia nel 2001 dopo aver finito gli studi di moda all’università della sua città.
Perché proprio in Italia?
«Perché appassionata di Giorgio Armani, Moschino e tutti i grandi della moda Made in Italy. Ero già stata negli Stati Uniti e volevo fare un’esperienza in un Paese con una cultura più simile alla mia, quindi non a Londra e Parigi. Mia madre mi disse di non andare lontano, meglio New York. Milano però è una delle capitali della moda e quindi… Per un anno frequentai il master di moda e comunicazione dello Ied».
Come fu il primo impatto?
«Per me era la prima volta in Europa, avevo 21 anni ed ero un po’ spaventata oltreché emozionata. Ricordo la prima sera con un amico colombiano, in città da qualche mese, che mi venne a prendere con il taxi, mi fece mettere le mani sugli occhi, e poi mi fece scendere all’improvviso davanti al Duomo. Una meraviglia. Pensai: io da qui non vado più via. Era giugno».
Che cosa fece dopo lo Ied?
«Uno stage di sei mesi da Elio Fiorucci lavorando sulle linee intimo e costumi da bagno. Di certo non facevo la modella… Dopo lo stage iniziai a lavorare per una società italiana di consulenza moda con sede a Hong Kong. Facevo base lì e passavo un mese e mezzo in Cina e un mese e mezzo in Italia. Seguivo i marchi, quindi cercavo fabbriche, tessuti e materiali vari per metterli nelle condizioni di produrre alle migliori condizioni. Dopo quattro anni così passai alla Replay e andai a vivere ad Asolo, in Veneto, che per tre anni e mezzo diventò la mia casa».
Le mancava Milano?
«Tantissimo. Il caos, il traffico, l’aperitivo… La città. Tutto. Io e la campagna andiamo d’accordo per un po’, un week end, poi basta».
I milanesi come sono?
«Se dico splendidi non faccio la figura della furbetta? Mi hanno fatto sempre sentire a casa. Non mi sono mai sentita rifiutata o diversa. Mi è successo di sentirmi così solo a Torino, qualche anno fa. Mio marito, che è di Palermo e fa il notaio, era lì per fare pratica, e devo dire che avevo spesso la sensazione di essere invisibile. Nessuno mi considerava».
Il brutto dei milanesi?
«Quello di tutti gli italiani: non rispettare le regole, che per me sono importantissime. Parlo di file alle Poste, traffico, appuntamenti in ritardo… Da questo punto di vista sono svizzera più che colombiana».
Per integrarsi bene che cosa bisogna fare?
«Lavorare ed essere sempre disponibili a imparare. E poi non fingere mai, essere sempre stessi, ed imparare a cucinare, apparecchiare la tavola, saper stare assieme agli altri… Per voi mangiare è un momento di socializzazione fondamentale. Per noi no».
Torna spesso in Colombia?
«Da quando è nata mia figlia Camilla, che ha 5 anni, due volte l’anno. Quando frequenterà la scuola elementare sarà tutto diverso».
Los Trapitos al Sol che cos’è e quando nasce?
«È un piccolo marchio di costumi da bagno che ho iniziato a disegnare nel 2011: la prima collezione l’ho messa in vendita nel 2012. Prima mi ero sposata, avevo avuto una figlia, e per due anni mi ero dedicata solo a lei. Tornata al lavoro da stilista-imprenditrice, e non volendo piazzare i miei capi in conto vendita nei negozi, ho pensato di organizzarmi per fare tre giorni in uno spazio a Palermo, tre in un altro a Padova, Bologna, Firenze etc… Quest’anno da marzo andrò anche a Londra, Madrid, e forse Barcellona, oltreché online».
Funziona?
«Ogni anno va meglio, ma i risultati seri di solito si vedono dopo sette anni. Bisogna aspettare. L’anno scorso in due mesi e mezzo di tour ho venduto 500 pezzi, adesso 1000, il doppio. L’importante è non perdere soldi, per ora»
Che piazza è Milano?
«Buona, ma la migliore – non so perché – è Roma».
Quanto costano?
«I costumi sono tutti fatti in Italia con il miglior tessuto sul mercato, il London Liberty. Visto che non vendo attraverso negozi posso permettermi di fare prezzi che vanno da 90 a 150 euro, non di più. Faccio pochi pezzi per ogni modello, così nessuna rischia di trovarsi in spiaggia con una super gnocca vicino che indossa lo stesso costume…».
Parenti e amici colombiani che cosa dicono di Milano?
«Bella città, tutti molto eleganti nel vestire. Le donne adorano gli uomini italiani, sempre gentili ed educati. Meno i gesti e le urla…»
I gesti e le urla?
«Non vi rendete conto, lo fate sempre. I primi tempi io pensavo a litigi continui…».
Quali sono i posti più belli della città?
«Brera, i Navigli, l’Arco della Pace…».
I suoi genitori che cosa fanno per vivere?
«Sono tutti e due in pensione: mio padre è un agronomo, mia madre una contabile».
Le chiedono di tornare?
«Non più. La mia vita è qui. Tornerò da anziana».
Pregiudizi nei suoi confronti?
«Come da copione: colombiana quindi un po’ zoccola, ovvio. E poi la storia della cocaina… All’inizio ci rimanevo male: siamo anche il paese di Gabriel Garcia Marquez e Fernando Botero, dai… Adesso mi sono abituata, ma chi generalizza così vuol dire che è un po’ ignorante».
Suo marito è di Palermo: più facile avere a che fare con i milanesi o i palermitani?
«Diciamo che per me, all’inizio, è stato un po’ difficile far capire a mia suocera che non ero la colombiana venuta in Italia a cercare marito, anche perché quando l’ho conosciuto ero già qui da quattro anni per lavorare e non per sistemarmi. Quando ha incontrato la mia famiglia è cambiato tutto. Ha capito che in Colombia ho lasciato qualcosa di bello. Adesso andiamo d’amore e d’accordo. Al Sud, si sa, sono un po’ più lenti per certe cose».
Vota qui?
«Sì, ho preso la cittadinanza a giugno, ho il doppio passaporto. Ma non so ancora per chi voterò alle Amministrative».
Moschea sì o no?
«Mi sembra giusto che ogni fede abbia il suo luogo di culto. Io non sono cattolica, ma sono per il rispetto della cultura e delle tradizioni italiane. Se uno viene da fuori, e non gli sta bene quello che c’è qui, deve fare solo una cosa: andarsene. Gli stranieri non possono essere contro il crocifisso, contro questo e quello, e lamentarsi sempre… Devono fare di tutto per integrarsi. Vale anche per me».
Episodi fastidiosi?
«Non mi sono mai sentita così offesa come quando sono andata a fare per la prima volta il permesso di soggiorno. Ero in coda e ricordo che un poliziotto ci trattò malissimo, urlando e insultando. La realtà è anche questa, c’è poco da fare».