Daniele Icicli gestisce da dipendente un negozio, anzi mezzo, che vende tramezzini – Tramezzino.it – dalle parti di piazzale Maciachini, per l’esattezza in via Carlo Imbonati 22. Ha 32 anni, non si è diplomato, è single, e ha capito che alla sua età deve prendere decisioni importanti. Non può continuare a vivere dalla madre. Nato e cresciuto a Milano, Daniele Icicli ha la pelle nera. Questa (più o meno) è la sua storia.
Da dove vengono i suoi genitori?
«Mio padre, che non c’è più da quattro anni, era di Sondrio. Mia madre invece è di Asmara, in Eritrea. Si conobbero lì perché lui costruiva strade, era capo asfaltista, e aveva un appalto da quelle parti. Ma in Africa non accadde nulla. Lei aveva 17 anni e dopo qualche mese, autonomamente, arrivò a Catania con un contratto di lavoro, fingendo di avere quattro anni in più. Poi si spostò a Roma. Era il 1971. Si rividero dopo un anno a Milano, dove entrambi si erano stabiliti, senza sapere uno dell’altro: mio padre nel frattempo aveva cambiato mestiere e lavorava in un negozio di via Melchiorre Gioia che vendeva articoli etnici. Mia madre un giorno entrò per caso e… Io sono nato nell’83, mio fratello nell’86. Tutti e due a Milano, ovviamente».
Come è stato crescere a Milano con una pelle come la sua?
«Quando io ero piccolo di stranieri ce n’erano pochissimi in giro. Nella mia scuola di non bianchi eravamo in tre-quattro, adesso è il contrario. Problemi gravi non ne ho mai avuti, ma non è stato facile: all’inizio me l’hanno fatta un po’ pesare questa diversità».
Come?
«I milanesi sono diffidenti: se non conoscono, non si fidano. Ti tengono a distanza. Anche se mia madre si è sempre comportata bene e ha sempre pensato a integrarsi».
Per lei è stato faticoso?
«Noi siamo nati e cresciuti qui. Siamo milanesi. Per lei i primi tempi sono stati molto difficili. Parlava solo eritreo, aveva paura del traffico, non usciva di casa nemmeno per andare a fare la spesa. Ci ha messo un po’ ad ambientarsi».
È mai stato in Eritrea?
«Qualche volta. Lì ci sono i nonni e tanti altri parenti. Qui ne abbiamo pochi, quelli di papà».
Come le è sembrato?
«E il Terzo Mondo, si sa. Il vero problema è che noi ci stiamo avvicinando a loro. L’altro giorno vedere in Tv che a Messina sono senz’acqua da giorni mi ha fatto male. Quelle scene con la gente in fila con i bidoni in mano, io le ho viste in Eritrea. Mai avrei pensato di rivederle qui».
Immagino che si senta più italiano che eritreo.
«Certo. Sono milanese e italiano al cento per cento. A volte faccio arrabbiare qualche eritreo che cerca di spingermi a rivendicare le mie origini. Io le rispetto, ma sono nato e cresciuto qui, non parlo più eritreo perché quando mamma si mise a studiare l’italiano è una lingua che non usò più, quindi…».
Lavora fra piazzale Maciachini e viale Jenner, zona ad alto tasso di immigrazione: adesso come si sta da quelle parti?
«Ci sono tanti immigrati. E secondo me i milanesi, e gli italiani in genere, non sono ancor pronti per questi cambiamenti. Quelli che non si fidano sono veramente tanti, c’è troppo condizionamento da parte dei media. La situazione di questo quartiere non è bellissima, anche se dove siamo noi è un’isola abbastanza felice. Per il resto, la gente ha paura. E ha ragione, aggiungo io».
L’approccio della gente quale dovrebbe essere?
«Io sono per la tolleranza totale. Fidarsi sempre del prossimo fino a prova contraria. Quasi tutti, invece, hanno pregiudizi, salvo poi scoprire che siamo tutti uguali. Il punto più importante è che tutti dovrebbero sentirsi più sicuri».
Milano è la città più internazionale d’Italia o no?
«Credo di sì, anche se per certi aspetti lo è in maniera forzata. Non c’è un progetto sociale di vera integrazione con e per gli immigrati. Gli italiani che in passato andavano all’estero venivano più o meno accolti, adesso gli stranieri che arrivano qui con i barconi sono sempre considerati male. Perché? Non è abbastanza chiaro che partono perché a casa loro stanno male? C’è tanta dittatura in Africa, la gente muore ancora di fame. C’è ancora chi ignora queste cose? Io mi considero fortunatissimo, ho tutto quello che mi serve per vivere decentemente. In Africa pochi possono dire lo stesso».
Il bello di Milano?
«Di solito la forza di guardare sempre avanti e saper fare. La novità di questi anni è che tutto, forse, è cambiato in negativo. Quelli che guadagnano 1200-1300 euro al mese ancora oggi fanno salti mortali per andare avanti. Quando Renzi dichiara che la crisi è passata, sa quello che dice? L’ha mai fatto un sacrificio in questi anni?».
Il sindaco Pisapia le è piaciuto?
«No. E l’Expo è servita a poco, anzi a niente. Prima di spendere tutti quei soldi dovevano sistemare le strade della città che si allagano ogni volta che c’è un po’ di pioggia. Dovevano chiedere ai cittadini se farla o no, questa Expo. D’altra parte, dal Governo Monti in poi la democrazia italiana non si sa più che fine abbia fatto».
Chi vorrebbe al posto di Pisapia?
«Qualcuno che creda davvero nella politica per la gente, uno che non la faccia per mestiere o per arricchirsi».
Vota o ha smesso di farlo?
«Da Monti in poi, visto che la democrazia è stata di fatto sospesa, non voto più. Almeno non mi faccio prendere in giro».
Pro o contro la costruzione della moschea?
«Io sarò favorevole alla moschea a Milano solo quando i cristiani potranno andare nei paesi arabi a pregare e non gli succederà niente. Poi c’è questa richiesta assurda di non tenere il crocifisso e di non festeggiare il Natale con i nostri simboli. Perché? Sono le nostre tradizioni e bisogna adeguarsi alle regole di chi ospita. Vale per loro come per noi, ovviamente. Non è razzismo, si chiama reciprocità».
È religioso?
«Sono cristiano cattolico, battezzato e cresimato, ma sono ateo. Mi piace il Papa, però. Uno dei pochi giusti».
Ha qualche posto in città a cui è particolarmente affezionato?
«Castello Sforzesco. Da bambini andavo sempre lì. Ricordo gli strumenti musicali, le armature, le armi… Un posto magico, che a me piace più del Duomo».
Ha mai pensato di andare via?
«Sì, e ci sto ancora pensando. Tanta gente va a Londra, ma a me non piace. Mio fratello è lì da due anni e vive con altri ragazzi con i quali divide bagno e cucina. Non è proprio il massimo. Io entro un anno vorrei trasferirmi in Spagna per aprire un’attività di ristorazione a Barcellona o Siviglia. Andrei anche a parità di stipendio. Se non altro la vita da quelle parti è meno cara, guadagnerei qualcosina».
Andrebbe via solo per questo motivo?
«I motivi sono tanti. Qui ti senti sfruttato, poco considerato, senza prospettiva. Al momento a Milano per uno come me il margine di crescita professionale è ridicolo. Io prendo 1300-1400 euro al mese e qui, a 32 anni, con questa cifra non mi posso permettere nemmeno di andare a vivere da solo. Non va bene una cosa del genere. E guardi che con mia madre vado molto d’accordo»·
Vive ancora con lei?
«Certo, con quello che guadagno non ce la faccio. Pur lavorando, non mi resta niente a fine mese. E se penso al futuro penso che in italia non cambierà mai niente».
Qui come ha iniziato a lavorare?
«Giovanissimo. Come un pirla ho lasciato la scuola a sei mesi dalla maturità. Così ho iniziato a lavorare facendo il benzinaio, poi sono passato a sistemare videoregistratori e televisori, a fare medicine per malati di cuore, poi alla Nestlè a fare il Nesquik e il Nescafè, il metalmeccanico per tre anni… Alla fine, i tramezzini. Per cinque anni ho assemblato gli ordini, poi l’azienda ha deciso di aprire un punto vendita monomarca a Milano e sono stato scelto per gestire questo negozio. Che è molto particolare. In pratica è uno spazio diviso in due: da un lato ci siamo noi e dall’altro un ristoratore giappo-cinese. Siamo qui da quasi tre anni. Siamo gli unici in città a dividere uno spazio così».