Niccolò Agliardi è uno dei nomi più importanti della nuova canzone d’autore italiana. Non è ancora famoso come uno di quei ragazzi che escono da un talent, cosa che a lui nemmeno dispiace, ma durerà sicuramente di più. Ha pubblicato quattro album molto apprezzati dal pubblico e premiati dalla critica, ha scritto e collaborato con Laura Pausini (sei canzoni dell’ultimo album Simili sono sue), Eros Ramazzotti, Zucchero, Elisa, Emma, Patty Pravo, Pacifico, Niccolò Fabi e tanti altri. Docente a contratto alla Statale di Milano, dove tiene lezioni e corsi sulla canzone italiana, autore di un libro con Alessandro Cattelan, intitolato Ma la vita è un’altra cosa (entro l’anno è prevista l’uscita di un romanzo su un fatto di cronaca veramente accaduto), Niccolò negli ultimi tre anni ha firmato la colonna sonora delle prime due edizioni della serie tv di Raiuno Braccialetti rossi, di cui sta curando anche la terza stagione. Milanese di Milano, lucido e puntuale, mai banale, Agliardi vive dalle parti di Porta Romana e conosce bene la città. Il titolo di uno dei suoi album è Non vale tutto (il secondo, pubblicato nel 2011), che già da solo dice tanto di lui.
In che zona della città è nato e cresciuto?
«Sono nato in una zona di Milano molto borghese, via Vigna, in pieno centro storico fra via Circo, via Lanzone e via Torino. Io e i miei abitavamo in una casa bellissima, con un grande giardino dove giocavo con le tartarughe e sotto c’erano gli scavi romani… Poi è diventata troppo cara, e i miei si sono spostati, anche se più o meno siamo rimasti da quelle parti: via Giangiacomo Mora, nel quartiere Ticinese, fra le colonne di san Lorenzo a via Cesare Correnti. Poi nel 1983, quando avevo nove anni, i miei genitori si sono lasciati e io e mia madre siamo andati in una casa a equo canone a via Del Torchio. Devo dire che siamo sempre arrivati nelle zone centralissime della città poco prima che diventassero di moda e quindi impraticabili».
La sua prima casa quando l’ha avuta?
«Da adulto, a 19 anni, sono andato a vivere a corso Lodi. Quello fu un guizzo di mio padre, architetto, che aveva capito il valore di tutta la zona di Porta Romana – all’epoca molto malandata – e comprò una casa a una cifra ridicola, più o meno sessanta milioni di vecchie lire. Adesso da poco più di un anno vivo in un altro appartamento, sempre nello stesso quartiere».
Com’è stato crescere a Milano?
«Pur facendone parte ho sempre cercato di sfuggire alla borghesia milanese e ai suoi riti. Ho fatto il liceo classico al Manzoni, periodo che ricordo volentieri. A frequentarlo erano i figli della upper class ma, avendo un bacino di utenza molto ampio, che andava dal centro alla periferia tipo Buccinasco, Corsico e Rozzano, c’erano anche quelli di una Milano molto diversa e popolare. Un mix un po’ difficile da governare. Io, figlio di una buona famiglia del centro, ho sempre subito il fascino degli altri, i diversi da me, e ho sempre cercato di fare quello che sentivo. A Milano, però, devi in qualche modo capire in fretta a chi appartieni per vivere in maniera tranquilla e stabile».
Cioè?
«Spesso mi sono sentito un outsider. D’istinto frequentavo anche i coetanei della periferia, ma – per capirci uso la musica – la periferia ascoltava i Black Sabbath, i Madness e i Clash, e io adoravo Roberto Vecchioni. Ero affascinato da tutto ciò che era brutto e sporco, da ciò che non ero io, ma alla fine avevo le Clarks e i pantaloni sempre puliti e stirati… Insomma, giocavo a fare il “sinistrino”, quello impegnato, ma era un po’ troppo difficile per me…».
E quindi?
«La mia estrazione è quella, il liceo mi ha permesso di aprire le porte di un mondo, sporcarmi le mani, ma per tutti quelli che frequentavo ero sempre il ragazzino perbene della buona famiglia di Milano centro. Incuriosito e affascinato dagli altri, alla fine sono rimasto quella cosa lì».
Che cosa bisogna mettere a fuoco per capire meglio una città come Milano?
«Secondo me bisogna sapere che questa è una città che tende ad omologare la comunicazione fra le persone. Ha una lingua, uno slang, un accento e certi slogan da cui bisogna cercare di liberarsi. Nei confronti di chi ci interessa, bisogna essere particolarmente curiosi e andare oltre, scompaginare le carte, sperando che ci sia altro. Faccio un esempio, se in Tv – tipo Studio Aperto – si guarda un servizio su Milano e si va ad ascoltare che ne pensano di questo o quel problema i milanesi, sembra che dicano tutti la stessa cosa, nello stesso modo. Capito?».
Forse. In pratica, è una città che tende ad appiattire?
«Sì. Pur rendendo possibile, più o meno qualsiasi cosa dal punto di vista pratico, per quanto riguarda i rapporti umani tende a semplificare, incasellare, omologare appunto».
La parte migliore qual è?
«La volontà. La voglia di fare, mettersi in gioco, far accadere le cose sul serio. Essere al centro. Chi ci abita lo sa, sa che qui “possibile” è una parola che ha un senso reale, e che quindi conviene dare il massimo. La città genera una competizione molto edificante. Chi fa lo studente fuori corso qui non va da nessuna parte. Milano gente così la maciulla».
Per lunghi periodi ha vissuto a Roma, ha mai pensato di trasferirsi definitivamente?
«Sì. La prima volta nel 2000, la seconda poco tempo fa. A Roma si incontrano linguaggio e persone molto interessanti, ma alla fine non l’ho mai fatto perché con la città e gli amici che conosci da una vita è tutto diverso, più vero e profondo. E poi a 40 anni ho anche meno voglia di spiegare chi sono, cosa faccio, come e perché. Con quelli che fanno parte del tuo mondo da una vita è tutto più facile, c’è quell’automatismo che in un attimo ti fa dire: “Ehi, sono io. Sono sempre lo stesso. Anche se tante cose sono cambiate, eccomi qui”. E non c’è bisogno di dire altro perché quelli che ti conoscono da sempre sanno chi sei. E bello andare in giro per il mondo, ma lo è anche tornare a casa, dove ti hanno visto in tutti i modi, anche i peggiori, e basta essere se stessi. Non è male, sentirsi a casa. E la mia casa è Milano».
È più italiana di tutte, anche perché abitata da italiani che vengono da ogni parte del Paese, o no?
«Anche se abitata da tutti, Milano è un’altra cosa rispetto all’Italia. Come Roma, del resto. È lontanissima dall’Italia che guarda la Tv, non legge, pensa, mangia e riposa in un certo modo… Milano non è quell’Italia lì, e noi che ci viviamo dovremmo ricordarcelo un po’ più spesso perché se facciamo valutazioni generali non possiamo non tenere conto della particolarità di questa città. Non è meglio né peggio, sia chiaro, ma non è rappresentativa della pancia dell’Italia. Milano è una mano molto articolata che sa muoversi, agganciare e fare tante cose, ma non è l’Italia, pur facendone parte. È una città che ha sempre voluto respirare un’aria straniera, oltre le Alpi».
Facendo questo si è persa qualcosa per strada?
«Sì, certo. Il rapporto con la parte più primitiva e sociale. Basta andare al Sud e vedere come si sta insieme, come la gente si parla nelle piazze, nei bar, ovunque. Qui a Milano dovremmo prenderci un po’ di tempo per noi e per gli altri, tornare a fare certe cose che si facevano in passato».
Lo spirito milanese è comunque sopravvissuto?
«Milano è rimasta milanese e ancora milanesizza. Da questo punto di vista la città non ha tradito se stessa».
Quelli che vengono da fuori non si milanesizzano troppo?
«Sì, è vero. Accettano come se niente fosse anche l’apericena… Invece di portare quello che di buono hanno a casa loro, diventano milanesi – a parte i romani – molto velocemente e con poco senso critico. Questo è un peccato».
I milanesi, invece, si prendono troppo sul serio?
«Non più. Sono sempre molto seri e concentrati quando lavorano, ma ormai hanno affinato una grande autoironia. È il meridionale quello che si prende troppo sul serio, quello a cui non puoi nemmeno dire che è meridionale…».
C’è una parte della città che bisognerebbe riscoprire?
«Nel 2011 ho scritto una canzone, L’ultimo giorno d’inverno, sulla salita di Porta Venezia, che in primavera ha alberi con fiori bianchi e rosa bellissimi. Ecco, Milano ha spazi e altezze che dovremmo guardare con occhi diversi per apprezzarla di più».
Che cosa non le va giù, invece?
«A me non piace di Milano tutta quella “cosa” che viene offerta durante eventi come il Fuorisalone del mobile o la settimana della moda, quando ogni cosa sembra diventare mondana. Ecco, quella roba lì non mi va giù. Devi sempre dire a tutti qualcosa su quello che stai facendo professionalmente e questo a me non piace. Ci vorrebbero più feste in cui poter sentire più spesso la domanda “Come stai?” prima di “Che lavoro fai?”».
Quali sono i suoi luoghi del cuore in città?
«Porta Romana e alcune stradine come via Crocefisso e via Disciplini, parco Ravizza dove vado a correre, via Crema, via San Rocco… Non abiterei mai nel Quadrilatero, mi sembrerebbe di stare in Svizzera. Troppa opulenza».
Quando scrive ogni posto va bene o ne ha uno in particolare che preferisce?
«La parte più viva del mio lavoro, che è la scrittura, è tutta qui. Prima nella mia vecchia casa a corso Lodi, adesso nella nuova. Essere a Milano, nei miei spazi, mi fa essere più autentico e tranquillo. Sono felice che sia così».