La vita di Riccardo Vitanza – per come la racconta lui, che sa bene come funziona il gioco – sembra un film di Frank Capra. Nato nel 1965 a Massaua, in Eritrea, con i genitori e i due fratelli più grandi nel 1976 scappa dal Paese in guerra e da profugo sbarca in Italia. Sette anni più tardi, nel 1984, senza un soldo in tasca si trasferisce a Milano per studiare Giurisprudenza. Mollerà dopo cinque esami per mettersi a lavorare come copy writer in una piccola agenzia di pubblicità. Oggi Riccardo è il titolare dell’agenzia di comunicazione Parole & Dintorni, una delle più importanti nel mondo dello spettacolo italiano, la numero uno nel campo della canzone. Fanno parte della sua agenzia Ligabue, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Elisa, Pooh, Emma, Piero Pelù, Ornella Vanoni, Pacifico, Ron, Cristiano De André e tanti altri. Vitanza nel 2015 ha curato anche la promozione della serata finale dell’Mtv European Music Awards, in cartellone al Forum di Assago.
Andiamo per ordine. Come profughi dove arrivaste?
«Io e la mia famiglia atterrammo direttamente a Roma. Per qualche mese alloggiammo in un albergo, poi ci dissero che la cosa migliore da fare, visto che non avevamo parenti vivi in Italia, era trasferirsi a Pordenone o a Frosinone, dove c’erano due grandi aziende che avrebbero assunto tanta gente: la Zanussi e la Fiat. I miei per una questione climatica decisero di andare a Frosinone – la Fiat era lì vicino, a Cassino – e i miei fratelli riuscirono a farsi assumere in fabbrica. A noi tutti ci sistemarono in un casermone ribattezzato Palazzo Profughi, che di sicuro non sfigurerebbe a Quarto Oggiaro, assieme ad altre venti famiglie di italiani d’Eritrea. I miei fratelli sono ancora lì».
Suo padre come si sistemò?
«A 55 anni papà a Roma scoprì che il proprietario italiano della pompa di benzina che gestiva a Massaua gli aveva versato solo cinque anni di contributi invece di trentacinque: quindi aveva diritto solo alla pensione minima che integrava facendo qualche lavoretto ogni tanto. Niente di più. E mamma era una casalinga. Insomma, l’Italia per noi fu uno shock: in Eritrea avevamo tutto, in Italia niente. Io poi ero timidissimo, e non mi aiutò il fatto di aver cominciato la prima media all’inizio del secondo quadrimestre: ero al centro dell’attenzione ed ero terrorizzato da tutto e tutti. Ero solo».
Perché poi venne proprio a Milano?
«Crescendo avrei voluto frequentare il liceo classico, ma mio padre mi costrinse a iscrivermi all’Istituto Tecnico Industriale, perché con quel diploma avrei potuto iniziare a lavorare subito per portare a casa un po’ di soldi. A Milano, però, c’era una zia tedesca, Ursula, insegnante madrelingua al liceo Parini, che si fece avanti per ospitarmi se mi fossi iscritto all’università. Mio padre si incazzò ma poi mi fece andare. Mamma, ovviamente, si mise a piangere a dirotto».
Come se la passò all’inizio?
«Fu un secondo shock. Abitavo dalla zia a Milano 2 e venendo da una famiglia povera l’agiatezza di mia zia mi piaceva ma un po’ mi imbarazzava. Non c’ero più abituato. Giù i miei non dico che facessero la fame, però faticavano a far tutto. Dovevo mandare loro un po’ di denaro. Dopo cinque esami a Legge decisi di mollare gli studi e mettermi a lavorare. Mi piaceva leggere e scrivere, trovai un posto da copy writer in una piccola agenzia di pubblicità. Quelle grandi giustamente non mi volevano: non ero laureato, non avevo esperienza».
E poi?
«Tanta fame. Guadagnavo 500 mila lire al mese e ne spendevo 350 d’affitto in un appartamento che dividevo con due ingegneri calabresi. In pratica, mangiavo solo tonno, pomodoro e cipolle. Mangiavo carne, una fetta, ogni quindici giorni. In ufficio cercavo di imparare qualsiasi cosa: dal lavoro della segretaria a quello del capo. Fotocopiavo tutti i suoi libri di pubblicità che leggevo la sera a casa. Dopo quasi un anno cambiai per un motivo validissimo: un milione di lire al mese. Il doppio di quello che prendevo dall’agenzia pubblicitaria. In via Gratosoglio c’era una discoteca di musica africana, lo Zimba, che aveva bisogno di una persona che curasse la fanzine e la corrispondenza burocratica. Mi feci avanti e mi presero. Potevo finalmente dare due soldi a mio padre e mia madre. Per fare le cose per bene mi misi sotto a studiare un musica afro, pubbliche relazioni e giornalismo, visto che dopo un po’ mi chiesero di fare anche l’ufficio stampa».
Senza internet dove le trovava le informazioni sui gruppi africani?
«Andavo alla Biblioteca Sormani a leggere libri e giornali come Jeune Afrique. Se non trovavo biografie o altro, inventavo. Un momento importante fu il primo tour di Ziggy Marley in Italia, che andò molto bene. Nel 1990 affittai un monolocale di 23 metri quadrati che trasformai in ufficio per promuovere centinaia di concerti allo Zimba e di altri artisti come Ramones, Ice T, Public Enemy, Blur, Ice Cube, Cranberries…Da lì in poi non mi sono più fermato»
Come se la immaginava Milano?
«Bella, grande, tosta. Ma non pensavo che lo fosse così tanto. I primi anni per me furono veramente duri: dovevo “svegliarmi” dalla mia timidezza, mi trovavo in una città che offriva tantissimo – erano gli anni della Milano da bere – ma non avevo i mezzi per potermela godere, e in città c’erano ancora i cartelli con su scritto “Non si affittano case a meridionali”. Lo dico per far capire l’aria che girava in città. Milano oggi è una delle città più accoglienti d’Europa, ma non è sempre stata così. Ovviamente io adoro Milano, devo tutto a questa città. Se non fossi venuto qui non so che fine avrei fatto. Detto questo, la svolta della mia carriera arrivò nel ‘93».
Come?
«Mi presentai a un colloquio di lavoro con un buon progetto di comunicazione e un telefonino Italtel enorme, che appoggiai sul tavolo fra me e i miei interlocutori. Mesi prima le stesse persone mi avevano detto che non mi avrebbero mai dato lavoro: non avevo uno staff, non avevo un ufficio, non avevo un telefonino… Però portavo a casa i risultati come nessun altro. Tre giorni dopo mi chiamarono per farmi sapere che il lavoro era mio. Si trattava del primo contratto con Heineken per la sponsorizzazione dell’Umbria Jazz Winter. Da allora ho fatto festival, tour, eventi di o ogni tipo e ho iniziato a seguire direttamente artisti come Jovanotti, Giorgia, Pino Daniele… Nel 2000 passai da un piccolo ufficio in via Palestrina, sempre in zona piazzale Loreto, al mio ufficio attuale studiato per una squadra di una ventina di persone».
Ha curato la promozione di centinaia di artisti: gratitudine è una parola che ha un senso per lei o no?
«Diciamo che è merce rarissima. Gli artisti sono persone particolari, si sentono il centro dell’universo, spesso non si rendono conto della realtà delle cose e di ciò che gli succede intorno. Rapportarsi con loro è come avere a che fare con i bambini: sono imprevedibili, viziati, arroganti».
Il campione al contrario chi è?
«Giovanni Allevi. Senza di me non avrebbe fatto niente di quello che poi è riuscito a fare. L’ingratitudine di Giovanni, e anche di sua moglie, è stata la delusione più grande della mia carriera. Rimuovere tutto quello che ho fatto per lui con la facilità con cui si butta una cartaccia nel cestino è stato veramente incredibile».
Chi si salva?
«A parte Pacifico, che per me è come un fratello, due eccezioni di cui mi piace parlare sono sicuramente Luciano Ligabue e Francesco De Gregori. Conoscono alla perfezione i meccanismi della comunicazione, hanno rispetto del lavoro di tutti, non invadono mai il campo altrui. E come persone sono vere, sensibili, profonde. Per me è un onore lavorare con loro. Luciano è un signore, generosissimo: anche quest’anno – contento del lavoro fatto insieme – mi ha gratificato di un premio in denaro assolutamente non dovuto. Un vero e proprio regalo».
Quanto?
«Per la terza volta consecutiva mi ha dato un compenso più alto rispetto a quello pattuito nel contratto. Quanto non si dice, dai…».
Amici in questo ambiente ne ha?
«Dopo tanti anni posso dire che fra clienti, artisti e giornalisti, gli amici li posso contare sulle dita di due mani, neanche tutte. È così. Fa niente».
Com’è cambiato il lavoro negli ultimi anni?
«Tanto, in peggio. Internet e la crisi hanno accentuato sciatteria e pressappochismo del mondo dell’informazione italiana. Non c’è più la cura di una volta, nessuno verifica le fonti, si tende a “sparare” qualsiasi cosa».
È uno dei docenti del master in Comunicazione musicale alla Cattolica e ha fama di grande educatore: i giovani di oggi come sono?
«La formazione dei giovani è la cosa di cui sono più orgoglioso. Dalla mia agenzia sono usciti decine di capi uffici stampa di aziende importanti. Per il resto, noto che c’è sempre meno voglia di soffrire, di impegnarsi e guardare avanti. Io sono felice della mia squadra, perché è esattamente come la voglio io, ma su dieci giovani che iniziano da me otto mollano dopo poche settimane. Non reggono la pressione, i ritmi incalzanti, non vogliono rinunciare all’aperitivo. E vorrebbero andare in giro assieme ai cantanti…».
Nel 2013 è finito anche in un romanzo: Psycho Killer di Ezio Guataimacchi. Lei è Edoardo Lanza, grande capo di Words & Music e ne fa di tutti i colori…
«Guaitamacchi è bravissimo e mi fa piacere che mi abbia in qualche modo coinvolto. Però non sono interista e non ho mai abusato sessualmente delle mie collaboratrici… Ditemi tutto, ma questo no. E poi, anche se aleggio in tutto il libro, mi ha fatto morire quasi subito. Spero in una resurrezione nel prossimo».