Rosellina Archinto ha cinque figli, dieci nipoti e una storia da editore a dir poco straordinaria: se anche in Italia esiste la letteratura di qualità per bambini e per ragazzi – fino alla fine degli anni ’60 considerata assolutamente minoritaria – è grazie ai bei libri pubblicati dal 1966 al 1985 dalla sua Emme Edizioni – prefazioni di Natalia Ginzburg, testi e disegni di Guillermo Mordillo, Bruno Munari, Emanuele Luzzati etc. – poi venduta per fondare la Rosellina Archinto Editore, specializzata in biografie ed epistolari letterari (di Thomas Mann, Salvatore Quasimodo, Truman Capote etc.). A sorpresa, dopo aver ceduto nel 2003 la maggioranza di questa azienda alla Rcs Libri, nel luglio del 2015 Archinto ha ricomprato tutte le quote che aveva venduto. Rosellina, particolare non proprio trascurabile, ha appena compiuto 82 anni. La grinta, la passione e la voglia di fare, però, sono quelle di una ragazzina. Nata a Genova, Rosellina Marconi Archinto – nel 1958 sposò il conte Alberico Archinto, padre di tutti i suoi figli, poi lasciato nel 1970 per Leopoldo Pirelli, suo compagno fino alla morte, nel 2007 – è milanese da 70 anni.
Alla sua età, con un mercato editoriale in grande difficoltà, perché ha ricomprato la sua azienda dalla Rcs Libri, che tra l’altro sta per essere acquistata dalla Mondadori? C’entra la politica e Berlusconi – la Mondadori è sua – o è semplice romanticismo?
«Qualcuno dirà che sono una vecchia pazza, ma l’ho fatto solo perché voglio continuare a fare libri a modo mio, con una linea editoriale seria e una base culturale forte. Siccome loro della Rcs mi sembravano interessati solo ai bestseller e poco o niente alle mie proposte, mi sono decisa e ho fatto quello che dovevo fare. Adesso, però, sono povera in canna».
I suoi cinque figli hanno provato a bloccarla?
«No. Le ragazze (quattro femmine e un maschio, ndr) devono aver pensato: “Mamma è così, lasciamo che faccia quello che vuole, finché c’è”. Tanto matta, però, non sono: ho sempre deciso tutto io e i risultati non sono mai mancati. Ho sempre fatto un’editoria particolare: nel 1966 quando ho fondato la Emme Edizioni (M sta per Marconi, il suo cognome da ragazza, ndr), tutti mi dicevano che ero fuori di testa e nessuno avrebbe mai comprato i miei libri per bambini. Invece ancora oggi sono dei cult, gioiellini editoriali invidiati in tutto il mondo. Lo sa che uno di questi libri è stato appena messo all”indice dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro?».
Ho saputo: Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni.
«È assurdo, un capolavoro di civiltà ed educazione come quello vietato nelle scuole da un sindaco contrario all’integrazione, uno che vuole vietare libri con argomenti relativi al gender, alle relazioni familiari, alla solidarietà sociale. Piccolo blu e Piccolo giallo sono diversi, sono amici e insieme danno vita al verde… Capisce che mostruosità ha fatto quel sindaco? Nel ’59 fu pubblicato negli Usa, nel ’67 lo pubblicai io in Italia, poi nel 2000 mia figlia Francesca ha fatto altrettanto con la sua Babalibri e ha avuto sempre successo. Adesso, però, è all’indice. Guardi, siamo a un livello tale…».
Si è fatta sentire?
«No, ci mancherebbe altro. Ho ricomprato la mia Rosellina Archinto Editore per continuare a fare come mi pare. Se voglio pubblicare epistolari e saggi, li pubblico. Se non voglio, faccio altro. La mia risposta a gente così è questa.»
Con Rcs Libri come si è trovata in questi 12 anni?
«Benino. Fino a quando non mi hanno detto che i miei libri così elitari non interessavano più».
Come è cambiata Milano in questi anni?
«Molto. Sono arrivata in città che avevo 12 anni, nel collegio delle Marcelline. Per me è sempre stata meravigliosa: mi ha dato tanto e mi ha permesso di fare tante cose belle e interessanti. Milano è la città della mia vita. Per amore suo, anni fa, andai anche in Comune per un po’ di tempo».
E nel 1993 accettò anche – come indipendente del Pri – la candidatura per diventare sindaco, poi affossata dal Pds.
«Me lo offrirono e dissi di sì perché fiera di essere laica e repubblicana. Il mio Pri era un partito con politici seri e onesti come Spadolini e Visentini, in città avevamo l’11 per cento dei voti, e buona parte della società laica milanese era repubblicana. Ma ci fu il veto del Pds… Poi arrivò la Lega, si sfaldò tutto, e lasciai perdere».
Al posto del sindaco Pisapia chi le piacerebbe vedere a Palazzo Marino?
«Non so che dirle e nemmeno voglio immaginarlo. Facciano quello che vogliono, io sono troppo vecchia. Devono impegnarsi i giovani. Io continuo a fare libri, la cosa più bella che so e mi piace fare».
Come giudica Pisapia?
«Lo stimo come persona e come sindaco. So che ha fatto di tutto per Milano, città che – quando lui è stato eletto – era purtroppo già stata colpita e affondata».
La prima cosa che cambierebbe in città?
«Il traffico. È un disastro micidiale».
Favorevole o contraria alla costruzione della moschea a Milano?
«Non riesco a trovare un solo motivo per non farla. Mi sembra giusto dare anche ai musulmani un posto dove pregare. Questo odio verso il prossimo non va bene. Milano non è mai stata così. Negli anni ’60, ’70 e ’80, al contrario di tante altre città del nord, Milano ha sempre accolto tutti gli altri italiani a braccia aperte. Quei cartelli vergognosi tipo “Non si affittano case a meridionali” a Milano non si sono mai visti. Adesso, invece… Mi rendo conto che la gente abbia paura, ma bisogna integrare chi viene da fuori: Milano è sempre stata una città civile, aperta, speciale. Io l’ho sempre percepita così».
Che cosa aveva di speciale la Milano di una volta?
«Il rapporto che c’era fra la gente. In genere c’era più solidarietà, rigore e attenzione. Personalmente ricordo che tutte le sere si usciva, si andava a vedere una mostra, si partecipava a un dibattito in una libreria, una galleria d’arte. Si conosceva gente nuova, si discuteva, si incontravano scrittori, pittori, giornalisti… Ricordo Italo Calvino, Elio Vittorini, Giordano Castellani… adesso c’è solo smembramento. Molti giovani, quelli che possono, oggi vanno via per andare a studiare e lavorare all’estero. I miei nipoti – privilegiati – l’hanno fatto, sono contenta per loro, ma non va bene. Così la città va incontro al declino».
Oggi è in mano a chi?
«La ricca e illuminata borghesia milanese, quella del Dopoguerra, non esiste più, come del resto non ci sono più gli operai e le grandi aziende. Adesso ci sono solo banche e finanzieri, che hanno un potere enorme senza produrre niente».
La festa per Milano è finita?
«Io spero che dopo l’Expo la città si ricompatti e riparta. I segnali sono in questa direzione, per fortuna. Cose belle ce ne sono. Guardi BookCity, per esempio, che è un’iniziativa splendida. L’idea è di Stefano Boeri, di cui ho grande stima e mi dispiace che abbia rotto con Pisapia (era l’assessore alla Cultura fino allo scorso marzo, ndr). Sua anche l’idea di aver spostato la Pietà Rondanini di Michelangelo di un centinaio di metri (dalla Sala degli Scarlioni del Museo d’arte antica del Castello Sforzesco al nuovo Museo della Pietà, allestito nell’ex Ospedale Spagnolo situato presso la Cortina di Santo Spirito del Castello Sforzesco, ndr) – con il risultato che prima nessuno andava a vederla e adesso c’è sempre una fila pazzesca. Boeri è bravo a captare le cose buone da fare per la città, senza spendere tanti soldi».
Le farebbe piacere averlo come nuovo sindaco?
«Mah! Non glielo consiglierei. Fare il sindaco di Milano è durissimo. Pisapia credo che sia estremamente affaticato, capisco che non voglia ricandidarsi».
Che ne pensa di Expo 2015?
«Non sono ancora andata, c’è chi dice che è da vedere, chi ritiene sia solo un grande centro commerciale. A sentire taxisti e ristoratori non mi sembra che ci sia stato un gran vantaggio, poi magari altre cose hanno funzionato. Non lo so».
La crisi di questi anni come ha cambiato il suo lavoro?
«Da così a così. Di ogni libro considerato “difficile” prima vendevo minimo 3 mila copie, adesso 7-800… Niente di più. Girano pochi soldi, la gente ci pensa due volte prima di spendere. E poi viviamo in un Paese dove qualche anno fa un ministro della Repubblica ebbe il coraggio di dire che con la cultura non si mangia… in Italia! Come si chiamava?».
Giulio Tremonti.
«Quello lì. Invece la cultura paga sempre e dà anche lavoro. Nel periodo di massima espansione della Emme Edizioni, prima di vendere, avevo dodici dipendenti».
A un giovane autore non milanese che volesse trasferirsi in città per farsi strada nell’editoria che cosa suggerirebbe?
«I giovani ormai hanno talmente tante possibilità che c’è poco da dire. Chi non le sa vedere forse non se le merita».
A Milano ci sono giovani autori interessanti?
«Sì. Ho grande ammirazione per chi vuole fare la carriera universitaria. Per esempio, adesso pubblico un libro di un musicologo sul rapporto tra Mozart e il violino, libro che l’autore ha scritto perché gli serve per lavorare in facoltà. Apprezzo i giovani che passano le serate a scrivere di cose serie e non delle solite cazzate. A Milano ce ne sono tanti che ancora credono nella cultura. Purtroppo tanti di loro devono emigrare all’estero perché qui non riescono a campare».
Il pensiero fisso di tutta la sua vita qual è stato?
«Pubblicare sempre libri sensati, mai puttanate. Che non ho mai fatto. Ogni tanto ho sbagliato, ma puttanate… mai».
Si è mai pentita di qualcosa?
«Sì, certo. Più che pentimento, però, è una constatazione: non avere mai avuto senso commerciale. Sono proprio negata e questo mi ha sempre intristito. Ancora oggi quando mi ritrovo il libro in mano con il mio nome, bello, stampato e finito, per me è fatta. E invece non è così».
Non ci avrà mica rimesso?
«Sì, certo. Con la Emme Edizioni alla lunga sono andata in perdita. Poi dal 1987 al 1997 ho pubblicato la rivista Leggere: un gioiello con le firme più importanti del mondo, bello e autorevole, poi chiuso perché il conto economico non stava più in piedi. All’inizio, i primi 3-4 anni, andava bene anche economicamente, poi purtroppo negli anni ’90 è venuto giù tutto a Milano. Sono arrivati Formentini, Albertini, Moratti… Anni durissimi. Cercai anche un partner, ma nessuno si fece avanti».
La puttanata della vita, allora, qual è stata?
«Aver venduto la Emme Edizioni nel 1985. Quel periodo, però, dopo il ’68 e il ’77, era così difficile…».
La delusione più cocente?
«Il trattamento subito negli anni ’70 da certa gente con la puzza sotto il naso: ero una bella ragazza e dicevano che per me, fare libri per bambini, era un hobby. Un gioco».
Si è presa le sue rivincite?
«Qualcuna, non tutte. Ma ormai sono vecchia. Non posso più togliermele come vorrei».
L’ultima soddisfazione?
«La Legion d’onore avuta dai francesi. Con loro ho sempre lavorato tanto e bene».
Se non fosse venuta a Milano che cosa avrebbe fatto?
«La passione dei libri l’ho sempre avuta. Ho appena ritrovato dei volumi che da bambina facevo da sola incollando e ritagliando. Avrei fatto quello che ho fatto ovunque, però Milano è stata determinante. Qui avevo Pietro Citati, Alberto Arbasino e Italo Calvino che mi davano le loro cose. Io le pensavo, ne parlavo con loro, e si facevano. Milano quando si tratta di concretizzare è una città molto facile. Ho fatto la collana dei Pomeriggi per ragazzi di 14-16 anni con Natalia Ginzburg che faceva le prefazioni: tutti dicevano che non sarebbero piaciute e invece… Insomma, ero collegata a un certo mondo culturale, eravamo quasi tutti amici, adesso sono tutti isolati, gli editori giovani non conoscono i loro scrittori, non li frequentano… Non si sorprenda, però».
Che vuol dire?
«È scomparsa la curiosità. Io ero e sono molto curiosa e per questo – se c’era qualcuno o qualcosa che mi stuzzicava – brigavo, chiamavo, cercavo di conoscere… – adesso non è più così. Adesso i giovani, compresi i miei nipoti e le mie figlie, sono tutti bravi e studiosi, ma poco curiosi».
L’ultima cosa da curiosa che ha fatto?
«Durante l’ultima trasloco che ho fatto, pochi giorni fa, ho trovato un giornale con una recensione su una raccolta di lettere di Arthur Rimbaud e l’ho subito preso. Il mio è puro amore per i libri».
Ama anche il computer?
«Leggo e invio le mail, compro i libri su Amazon e basta. Per il resto, lavoro e non mi piace perdere tempo a fare stronzate su Internet».
Gli incontri importanti della sua vita?
«Oltre a Italo Calvino, Elio Vittorini e Pietro Citati, direi Mario Soldati, incontrato a Milano. Ero innamorata dei suoi libri, quando lo conobbi all’interno della libreria Einaudi stavo per svenire dall’emozione. Sa, io leggevo tutto il giorno, non c’era la tv e papà era molto severo: non mi faceva mai uscire, quindi non potevo far altro».
Lei per anni, ogni domenica sera, ha organizzato grandi cene a casa sua: che aria tirava?
«Erano feste aperte, roba da 20-25 persone intorno a un tavolo. Tutti gli amici che erano a Milano sapevano che potevano passare, non c’era bisogno dell’invito. Io avevo sempre nel congelatore grandi arrosti già preparati e con le mie figlie che mi aiutavano a tagliare e a portare i piatti in tavola si passavano bellissime serate».
Sa cucinare?
«Sì. Amo il buon cibo, anche se oggi a Milano è praticamente impossibile mangiare decentemente. Vale per i ristoranti come per le case private».
Il primo grazie a chi lo deve?
«A me stessa. Mi hanno dato retta quasi tutti, questo sì, ma non è che sia stata molto aiutata. Forse uno dei pochi fu Giangiacomo Feltrinelli alla prima Fiera di Francoforte nel 1964. E con lui anche Giovanni Enriques della Zanichelli, persona straordinaria. Mi aiutarono da un punto di vista tecnico, presentandomi tutti gli editori stranieri, Enriques distribuì anche i miei primi libri».
Come sono cresciuti quei bambini che li leggevano?
«Mi sembra bene, o almeno lo spero. Sono i figli dei sessantottini…».
C’è un posto in città a cui è particolarmente legata?
«Via Brisa, qui. Santa Valeria è la mia zona da sempre. Non andrei mai a vivere a City Life, per dire, o quelle cose lì. A me piace il quartiere».
La nuova Milano dei grattacieli le piace?
«Sì. L’altro giorno ho visto il grattacielo di Boeri, il cosiddetto bosco verticale. Bello. Solo che io non ho lo spirito per vivere in quelle case. E poi soffro di vertigini. Sono donna di quartiere. Dove si vive assieme agli altri».
Adesso che cosa deve dimostrare a se stessa?
«Che non mollo mai. Resto in piedi e lotto. Sempre».
La prossima “guerra”?
«Questa della Archinto che torna alla Archinto. Speriamo funzioni. La linea editoriale sarà sempre la stessa».
Chissà quanta gente avrà pensato: a 80 anni passati non ci si butta così nella mischia…
«Tutta salute, mio caro. La vita è una».
Per arrivare fin qui c’è voluto più incoscienza o coraggio?
«Incoscienza, guardi questa faccenda dell’Archinto. Solo una come me poteva farla. Oddio, avrei dovuto lasciar perdere tutto e restare a casa a fare la calza?».
Ha mai fatto la calza in vita sua?
«Sì, per i figli qualche volta l’ho fatta».
Quando sarà il momento, fra cent’anni, come andrà a finire?
«Non sono mai andata in chiesa, ma va bene così. Sono una donna generosa, ho sempre amato il prossimo. Credo che il buon Dio sarà contento di me».
Nell’Aldilà, come gli antichi egizi, che cosa le piacerebbe portare?
«Le foto dei miei cinque figli. Niente di più».