DARIO LORUSSO ## Milanese di Licata, 36 anni, barista

Come sono i milanesi a prima mattina, visti dall’altra parte di un bancone bar, mentre prendono un caffè o un cappuccino? Ce lo racconta Dario Lorusso, 36 anni, uno che di queste cose se ne intende: fa il barista da vent’anni. Nato a Licata, in provincia di Agrigento, da madre siciliana e padre pugliese, Dario a tre mesi di vita era già a Milano. Da quattro anni lavora in un bar, Sgroi, in via Pierluigi da Palestrina 3, dalle parti di piazzale Loreto. Dario è sveglio, dietro a quel bancone non perde un colpo, le sfumature – anche quelle psicologiche – le coglie tutte.

«Sono del ’79 e sono nato a Licata perché è il paese di mia madre, che all’epoca già viveva a Milano e con il pancione andò giù per stare qualche giorno con i parenti. Però calcolò male i giorni… e partorì all’improvviso. Mio padre, invece, è pugliese e con mio nonno si trasferì qui nel ’70 per lavorare in un ristorante a piazza Santo Stefano. Quasi dieci anni dopo ne rilevò uno per mettersi in proprio. È così che la mia famiglia entrò nel campo della ristorazione».
Che studi ha fatto?
«Ho fatto tre anni di scuola alberghiera, non avevo una gran voglia di studiare. Ho un attestato, per il diploma mi mancano due anni. A sedici ho iniziato ad aiutare papà e lo zio e non mi sono più fermato, a parte i dieci mesi di servizio militare obbligatorio. Poi, lo ammetto, mi è venuta la nausea».
Cioè?
«Volevo provare altro, così ho lasciato perdere e sono andato a fare il magazziniere per la 3M, la multinazionale americana famosa per i Post-It. Dopo due anni e mezzo, però, mio padre ha preso un altro ristorante a Segrate e mi ha tirato dentro. Se potessi tornare indietro non lo rifarei, ma non per il lavoro in sé, che mi piace, ma perché sono stati sei anni complicati: non è facile lavorare con un familiare. Comunque alla fine abbiamo venduto e io, tramite mio cugino che lavora in un locale vicino, ho portato il curriculum al proprietario del bar in cui lavoro adesso. Mi ha chiamato, mi ha fatto firmare un contratto di un mese, poi sei… Sono già passati quattro anni. Mi trovo bene».
Come sono i milanesi visti dal bancone di un bar?
«Interessanti. Molto diversi uno dall’altro».
Nervosi? Tranquilli?
«Siamo a Milano, la gente inizia a correre sotto la doccia… Quando arrivano al bancone del bar sono già tutti tirati, presi dal loro ruolo, ansiosi di far vedere chi sono e chi non sono. Lo show, la rappresentazione sociale, a Milano comincia subito. A volte a qualcuno vorrei dire: “Nessun problema, signore, è solo un caffè, un cappuccino, quello che è… Se lo goda”. Ci sono anche quelli che, presi da mille pensieri, ordinano la colazione, la pagano, e vanno via senza consumarla. Poi arrivano all’angolo, o all’ingresso della metro, se ne rendono conto e tornano indietro. Milano è così. Tanto dà, tanto chiede. Ti strizza, questa città».
Con l’esperienza che cosa vede dal suo bancone?
«Un po’ ho affinato la capacità di capire con uno sguardo le persone e la loro psicologia. Niente di che, sono un barista, ma un’idea di chi ho davanti me la faccio subito. Lo capisco da come mi ordina il caffè. Ci sono quelli che per interagire hanno bisogno del “lei”, che pretendono rispetto formale e distanza altrimenti temono di perdere l’identità, e quelli che invece vogliono il tu e con il tempo hanno piacere a essere chiamati per nome. Io provo ad accontentare tutti: in un modo o nell’altro faccio quello che posso per far sentire il cliente in un posto confortevole e accogliente. Il caffè al bar e il primo momento sociale della giornata, deve essere perfetto. Il cliente deve sentirsi nel “suo” locale, sempre».
Mi sembra scontato.

«Sembra, ma per tanti gestori di locali non lo è. A pranzo, per esempio, se vedo due ragazzi che mangiano da soli e magari entrano altre due ragazze sole, li metto vicini. Faccio una battuta, probabile che si trovino, che facciano amicizia. Osservando la clientela, poi, con il tempo ho sviluppato anche una certa abilità a capire i furbetti, quelli a cui bisogna dire di fare prima lo scontrino… Che sono il contrario di quelli impacciati e indecisi, a cui bisogna dare consigli di ogni tipo. Poi ci sono quelli che non hanno mai tempo, che vogliono il caffè molto caldo o quasi freddo, a cui bisogna servire la tazzina con l’impugnatura girata verso un lato e mai sull’altro…  Insomma, c’è di tutto. Siamo a Milano».
Una Milano cambiata molto negli ultimi anni?
«La crisi ha esacerbato gli animi, di gente un po’ fuori di testa ce n’è sempre di più, ma va bene lo stesso. Certo, ad agosto è un’altra storia: la gente è più tranquilla e vuole parlare, stabilire un contatto, proprio come quella che vive a tre-quattro chilometri da qui. Per esempio a Segrate, realtà che conosco bene».
Il suo futuro come se lo immagina?
«Amo il mio lavoro, so farlo e porto sempre buoni risultati a casa, quindi mi piacerebbe avere una mia attività. Farlo in Italia, però, è impossibile. Ci sono troppe tasse da pagare. La mia idea imprenditoriale è semplice: tanta fatica, tanto guadagno. Altrimenti, visto che so cosa vuol dire essere proprietario, meglio fare il dipendente».
Con quello che guadagna ci vive tranquillamente?
«Non navigo nell’oro ma ci sto dentro. E poi da dipendente lavoro otto ore al giorno, mi sembra quasi un part-time rispetto alle dodici-tredici di prima, quando lavoravo con mio padre. Insomma, non mi lamento. Pur vivendo nella città in cui tutti si lamentano».
Appunto. Perché a Milano si lamentano tutti?
«La lamentela fa parte della città, è nel dna del milanese. Anche con l’Expo ogni giorno c’era il coro, tutti a menarsela. Ma che cosa si aspettavano? Più di quello che è stato fatto? Che palle… C’è sempre un però! Accontentatevi per una volta».
Il bello di Milano?
«Milano mi piace, sia chiaro. È costosa, stressante, dura, ma è un bel posto dove vivere. Io ci sto bene. Qui ho parenti e amici a cui voglio bene. E quando ho voglia di fare quattro passi a piedi me ne vado al Castello Sforzesco, all’Arco della Pace, sui Navigli, la nuova Darsena… Siamo gli unici ad avere questa roba qui».
Vive da solo?
«Con mio fratello. Per tre anni ho diviso un appartamento con due amici, poi quando sono andati via mi sono trasferito da quella che all’epoca era la mia fidanzata, ma non ha funzionato. Vivo con mio fratello, che lavora in un punto vendita della Nespresso, perché la vita è cara e ci siamo chiesti: meglio dividere un appartamento a Milano o stare da soli fuori città? Ecco perché alla nostra età, io 36 e lui 33, viviamo insieme».
Che vita fa? Lavora e basta, o ha tempo anche per altro?
«Svegliarsi alle cinque e mezza del mattino non è semplice, ma ho quei 4-5 amici storici che ci sono sempre e poi gli altri che cerco di vedere quando si può».
Qual è, secondo lei, la prima cosa da cambiare in città?
«Il clima, ovviamente. E la sicurezza. A volte non mi sento tanto sicuro ad andare in giro per le strade di Milano. In via Padova, dopo una certa ora, non ci andrei mai, per citarne una. Idem in Stazione Centrale. La domanda in questi casi è semplice: perché a Brera è tutto a posto, ci sono i controlli, e lì no? A chi fa comodo?».
Quali sono le differenze maggiori fra milanesi di nascita e d’adozione?
«I milanesi nativi sono tirati, poco aperti, si fanno i fatti loro. Quelli d’adozione sono più aperti, giocosi, rilassati. Bisogna sorridere di più».
A 40 anni dove si vede?

«Ho una speranza: lavorare all’estero, in un Paese con una vita meno frenetica. La corsa folle di Milano logora. Purtroppo non ho le risorse per poterlo fare. Non sono alla canna del gas, ma più si cresce e più le esigenze cambiano. La prima scelta sarebbe per la montagna: una bella baita».
Ha mai lavorato in altre città?
«No, solo a Milano e dintorni».
Mai pensato a moglie e figli?

«Non l’ho mai escluso. Poteva succedere qualche anno fa, ma non è successo. Chi vivrà, vedrà. Non ne faccio una malattia. Ho la mia famiglia, a cui sono molto legato. Mio fratello lo tratto come un figlio».
Tornando indietro che cosa cambierebbe?
«Il mio rapporto con la scuola. È vero che si impara tanto dalla strada e dal lavoro, però quello che impari studiando è veramente molto importante. Me ne sto accorgendo sempre di più. Che somaro…».

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