PATRIZIA TENTI ## Milanese di Arezzo, 45 anni, gallerista

Dalle parti di Patrizia Tenti – cioè dentro di lei – vivono in tre: la «provincialotta» di Arezzo (la definizione è sua) che se fa la ribollita non scherza mica, la rockettara irriducibile, la gallerista appassionata e scrupolosa – già architetto di successo – operativa in mezzo mondo. A Milano dal 1999, 45 anni, un marito alle spalle e nessun figlio, Patrizia nel 2010 ha aperto l’EraStudio Apartment Gallery, uno spazio unico e speciale, non solo per una città come Milano. In pratica, una galleria composta da un appartamento al terzo piano di un palazzo di via Palermo 5 e da una vecchia scuderia al piano terra, dove espone le opere di designer e architetti italiani e no. Entrambi gli spazi sono stati riportati allo stato originario, scarnificati, senza orpelli né fuffa varia. È qui che la incontro.

Dove siamo esattamente?
«Nel posto e nella città che cinque anni fa, quando ho aperto EraStudio, mi hanno permesso di cambiare vita. Solo qui avrei potuto farlo. Sono così grata a Milano che lo scorso gennaio, dopo 16 anni di vita qui, ho preso anche la residenza. Sono a tutti gli effetti una milanese. Ho anche una casa mia, adesso».
Perché, prima come si regolava?
«Sono in città dal 1999: per i primi dieci anni sono stata in hotel».
In hotel dieci anni?
«Sì, in via Muratori, a Porta Romana. Ho iniziato prenotando di mese in mese, poi portando le mie cose, infine trasformando la stanza in una specie di casa. Poi, quando ho preso la galleria, sono stata per un po’ di tempo a dormire anche lì. Diciamo che ho un carattere fra la nomade e il camaleonte, mi adatto subito e ovunque. Anche se la mia è una storia un po’ così».
Così come?
«Nonostante l’indole, all’inizio non volevo radicarmi. Milano mi sembrava troppo in tutto: fredda, grande, brutta».
Come ci arrivò?
«Dopo la laurea a Firenze e il dottorato a Sassari, iniziai a lavorare nello studio di architettura Baciocchi di Arezzo, da sempre partner di Prada e tutti i suoi marchi. Per loro seguivo la parte milanese, quindi gli allestimenti per le sfilate ma anche quella di largo Isarco, vicino a via Ripamonti, dove proprio quest’anno è stata inaugurata la Fondazione Prada. Aver lavorato in quella realtà per tre anni è stata una fortuna. Ho fatto esperienze uniche con architetti eccezionali come Rem Koolhas e Zada Hadid».
E poi?
«Per sette anni ho progettato in esclusiva per Ermanno Scervino in tutto il mondo. Dopo di lui, sempre per fare negozi e case, ho lavorato spesso in Russia, Ucraina, Giappone e Francia. Dopo tredici anni così mi sono stufata: volevo fare altro. Assecondare la mia passione per l’arte. Nel 2009 vedo lo spazio in via Palermo e come una pazza in pochi mesi decido di mollare tutto e cominciare la vita della gallerista. Tutto coincide con la morte di mio padre e mia zia, figure per me fondamentali. Se non ci fossero stati loro…».
In che senso?
«Mi hanno sempre stimolata tantissimo. Papà era macchinista, non aveva studiato, ma era intelligente e tenace. Voleva farmi fare l’avvocato a tutti costi. Solo dopo un anno, alla vigilia del primo esame, trovai il coraggio di confessargli che mi ero iscritta a un’altra facoltà. Per un anno non mi parlò, mi disse che ero una figlia terribile. Poi, però, mi ha sempre sostenuta. Mia zia, invece, mi pungolava con i voti: più erano alti, più soldi mi dava per viaggiare. E grazie a lei ho girato parecchio. Mia madre era quella che frenava, sempre prudente e attenta a non fare il passo più lungo della gamba. Però quando le ho chiesto consigli sulla galleria mi ha stupita: “Buttati, adesso è il momento giusto”, mi ha detto. A quel punto è finito anche il mio matrimonio, visto che non eravamo solo noi due a farne parte…».
All’inizio com’è andata con la galleria?
«Non avevo alcuna esperienza, non sapevo che fare. Avevo però grande energia e tanta voglia di riuscire. Mi hanno portato fortuna. La linea da seguire era ed è semplice: non proporre opere d’arte in senso tradizionale, ma dare spazio a quei lavori di architetti e designer svincolati da qualsiasi condizionamento. Insomma, il mio mondo».
Le prime mosse?
«Da piccola gallerista i primi tre anni mi sono rivolta al circuito fieristico internazionale, cioè Miami e Basilea. La prima esperienza l’ho fatta a Città del Messico perché avevo paura di fare così male che almeno volevo stare in una città che conoscevo. Invece è andata bene. Nel 2011 muore anche mamma e capisco che è iniziata una fase della vita tutta da sola. E faccio una mezza follia».
Cioè?
«Decido di conoscere Oscar Nyemayer».
L’architetto, il genio del Ventesimo secolo eccetera eccetera?
«Quello lì. Con un ‘amica svizzera, anche lei architetto, parto per Rio. E senza conoscerlo, cerchiamo di incontrarlo. Per puro caso, dopo una settimana che giriamo a vuoto, conosciamo suo nipote e il giorno dopo ci ritroviamo nel suo studio. Giustamente mi chiede che cosa volessi, io gli racconto i miei progetti e quello che avevo in mente di fare. Lui mi ha detto di andare avanti. È stato un incontro che mi ha cambiato la vita. Una persona tanto semplice quanto grande. Siamo addirittura diventati amici. Sono andata spesso da lui, fino a quando non è morto nel 2012, a 104 anni».
Milano come risponde al suo progetto?
«Dopo aver presentato la galleria in giro per il mondo, mi sono concentrata su Milano. Ho preso lo spazio nelle ex scuderie sotto e ho fatto bene. Temevo che la città non mi accettasse, invece ha funzionato. All’ultima fiera di Basilea mi hanno anche riconosciuta… In un bar una signora mi ferma, mi sorride, e mi dice che non devo presentarmi più come toscana, ma come milanese. Mi ha fatto piacere, è stata un bella sorpresa. Rientrata a casa, ho fatto il cambio di residenza».
L’ultima sorpresa milanese qual è stata?
«Ogni volta mi stupisco di quanto i milanesi siano aperti e attenti all’eleganza, ai nuovi stimoli, alla cultura in ogni sua rappresentazione. L’anno prossimo, per esempio, ospiterò opere del movimento d’architettura Radicale di Gianni Pettena, che avevo studiato all’università di Firenze e adoro: sono sicura che sarà accolta bene».
Altrove sarebbe riuscita a fare quello che ha fatto qui?
«No. Per me Milano è una delle città più vitali e importanti del mondo: attenta, dinamica, concreta».
Il brutto di Milano?
«Appena arrivata mi spaventava l’atmosfera internazionale mai sentita prima in italia, che un po’ mi faceva sentire inadeguata. Mi pesava anche la chiusura della città, quindi delle persone. Solo in seguito ho capito che in realtà sono così anch’io, ci metto un po’ a stabilire un contatto, quindi con il tempo ogni cosa si è aggiustata. Sul brutto di Milano voglio dire che solo qui diventa incredibilmente bello».
Che cosa vuole dire?
«Milano ha la capacità straordinaria di trasformare luoghi orrendi e fatiscenti in luoghi estremamente affascinanti. Tutta l’area della Fondazione Prada, per esempio, era completamente degradata e abbandonata e adesso è il posto più interessante di Milano. Si percepisce il passaggio del tempo sui luoghi, la traccia degli uomini negli spazi, cosa che me piace molto. Ecco perché la mia galleria si chiama Era e gli spazi espositivi sono così vissuti. Era, moglie di Zeus, è la protettrice delle arti minori, quindi la mia. In tutto quello che presento qui c’è una storia».
Quando vuole staccare dove va?
«Alla Cascina Cuccagna, che ha l’orto come ce l’ho in campagna ad Arezzo, dove quando torno faccio una ribollita come Dio comanda. E poi la Balera dell’Ortica, meta imperdibile per ballare e stare insieme. Sono una rockettara incallita, ma l’altra sera da loro c’era il concerto di Bobby Solo e non me lo sono perso. Perché a me piacciono anche le cose semplici e genuine. Gliel’ho detto che ho una personalità multipla?».

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