STEFANO PUZZO ## Milanese di Milano, 40 anni, ceramista

A sua madre sarebbe piaciuto vederlo impiegato in banca, giacca e cravatta, stipendio sicuro. Poco prima di finire gli studi di ragioneria, invece, Stefano si è guardato intorno, si è fatto un’idea del mercato del lavoro, e poi ha fatto la sua scelta: è entrato nel laboratorio di ceramica di suo padre Michele, siciliano arrivato a Milano mezzo secolo fa con la classica valigia di cartone. Succedeva nel 1995. Quarant’anni, moglie e due figlie, Stefano Puzzo non si è mai pentito della decisione presa. Anche con la crisi di questi anni.

Suo padre quando arrivò a Milano?
«Nel 1964, a 17 anni. Partì da solo dalla provincia di Enna e arrivò in città senza niente e senza conoscere nessuno».
Sua madre?
«È piacentina. Conobbe mio padre alla Gabbianelli, azienda di ceramiche dove entrambi lavoravano come operai. Da allora, sempre insieme. Io sono nato al Niguarda e cresciuto a Dergano, il nostro quartiere».
Ha mai pensato di fare il ragioniere?
«Mai nella vita. Mio padre aprì il laboratorio nel febbraio 1976, quando la ditta per cui lavorava chiuse per sempre. Al posto della liquidazione si fece dare un po’ di attrezzature e qualche cliente. Io sono del dicembre 1975 quindi è come se la bottega fosse la mia seconda casa. Quando finivo la scuola passavo da lì, un po’ giocavo, un po’ davo una mano, ma niente di programmato. Nel senso che papà non mi ha mai fatto discorsi tipo: “Un giorno toccherà a te e tuo fratello occuparsi di tutto”. Dovevo studiare e decidere da solo cosa fare della mia vita. Da ragazzino a me neanche piaceva la ceramica. Sapevo fare tutto, perché ci sono cresciuto, ma non mi interessava».
Come andò?
«Ragioneria, la banca, i conti mi facevano abbastanza schifo. Così, prima ancora di fare l’esame di maturità, comunicai ai miei di voler entrare in laboratorio. Iniziai il giorno dopo gli orali. Da allora, dal 1995, non mi sono più mosso. E ho fatto bene. Posso dire di essere fortunato: faccio un lavoro che mi piace. Alla fine mi sono appassionato».
Con la crisi come va?
«Ci siamo dovuti reinventare completamente. La crisi per noi parte da lontano: prima i cinesi ci hanno tolto tutti i clienti grandi, quelli che facevano ordini importanti e ci davano lavoro tutto l’anno, poi gli ultimi disastri economici hanno cambiato tutto. Adesso abbiamo trovato un nuovo equilibrio. Abbiamo più clienti di prima che ci chiedono tanti piccoli lavori. Molti architetti, designer, creativi vari. Abbiamo anche la sciura che ci chiede le bomboniere e quelli che comprano il singolo pezzo delle nostre produzioni. Cinque-sei anni fa, nei momenti di poco lavoro, mi sono inventato le statuette con i giocatori del Subbuteo, il serbatoio della moto, le statuette di Jimi Hendrix…».
Il pupazzetto del Subbuteo è ovunque.
«Ce l’aveva anche Renzi sul palco della Leopolda, ce l’ha Berlusconi nel suo studio, Linus a Radio Deejay. Ne faccio minimo 300 pezzi l’anno. Per me è una grande soddisfazione. Sono pigro, non sono un creativo, ma se mi ci metto… Ricordo che mio padre mi disse: “Scusa Stefano, ma che cazzo stai facendo?”. Poi si è dovuto ricredere. Ho fatto conoscere il laboratorio, che poi è l’unica cosa che conta. A me interessa che ci sia lavoro per tutti noi. Siamo un’azienda familiare. Ho due gemelle: Anita e Beatrice. È a loro che devo pensare».
Milano è una città che risponde?
«Sì, con il mondo del design e degli architetti va bene. In fondo, siamo nel posto giusto e non abbiamo concorrenza. Siamo l’ultimo laboratorio di ceramica presente in città. In altre parti d’Italia, al centro per esempio, sarebbe diverso. Oddio, anche lì ormai stanno chiudendo tutti. I cinesi si sono mangiati ogni cosa. Comunque sia, sto bene qui. Idem mia moglie, brianzola d’origine umbra che adora Milano».
Dergano, soprattutto.
«Sono cresciuto qui e qui per me c’è tutto. È come un paesino, come del resto era fino a un po’ di tempo fa (Dergano nel 1868 fu annesso ad Affori e poi, nel 1923, a Milano, ndr). Può capitare che io per settimane non mi muova da qui. Siamo parte di una vera comunità, ci conosciamo tutti, è la vita qui è ancora a dimensione umana. E poi nel giro di cinquecento metri ho tutto quello che mi serve: laboratorio, scuole, parchi… La mia famiglia abita tutta qui»
Fuori da Dergano dove va?
«D’inverno il sabato pomeriggio andiamo a bere il cioccolato a Brera, o in bici a Parco Sempione. Milano con il freddo è bellissima. Solo in primavera andiamo in montagna a Dezza, frazione del comune di Bobbio, nel piacentino. È il paesino dove’è nata mia mamma. Lì stacco da tutto, cammino nel bosco, vado a funghi».
La cosa che le piace meno di Milano?
«La fighettitudine. La vita è una cosa seria, dai. Per fortuna la mia dimensione è un po’ fuori dal mondo. Lavoro in bottega, nel quartiere dove sono nato e cresciuto, con artisti, designer e gente un po’ speciale. Mi va di lusso. Ecco, quando metto il naso fuori da Dergano vedo cose che non mi vanno giù: aggressività, maleducazione, isteria. Milano però non si discute, qui si trotta e si fa. Qui il concetto “Si può fare” vale sul serio. Se fossi cresciuto in provincia avrei sofferto tanto la piccola dimensione, me ne sarei andato».
Mai pensato di farlo?
«Quando sono andato a San Francisco, negli Stati Uniti, per un po’ ho pensato che lì sarei stato alla grande. In Italia, se sei a Milano, dov’è che vuoi andare?».
Molti si lamentano, però.
«Perché non stanno bene con se stessi. Non hanno ancora trovato il giusto equilibrio. Se vivi e lavori qui, e non stai bene, il problema è un altro».
Se il lavoro non lo trovi o magari l’hai perso?
«Adesso c’è anche questo problema, però, diciamo la verità: qui qualcosa da fare – anche adesso che è diventato tutto difficile – alla fine la trovi. Milano è la città delle soluzioni».
Se un cliente viene in laboratorio con un’idea bislacca come risponde? Che la soluzione c’è sempre?
«Sì. Da noi le idee prendono sempre forma. Certo, a volte vengono da noi giovani designer con richieste assurde: una cosa è fare il progettino al computer, un’altra è fare oggetti in ceramica. Comunque non ci tiriamo mai indietro. Adesso ci sono anche le stampanti in 3D».
Che cosa vuol dire?
«Noi dobbiamo sempre fare uno stampo, che volte è praticamente impossibile da realizzare. Ai clienti allora diciamo di stamparlo prima in 3D e poi di ripassare da noi. Vogliamo comprarne una, stiamo cercando di capire qual è la migliore e vedere se i prezzi scenderanno un po’. Affronteremo anche questo cambiamento. Sono convinto che le cose fatte a mano sopravviveranno. O almeno lo spero. Noi di sicuro qui stiamo e qui restiamo. Non molliamo».

 

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