Ventinove anni, un figlio di 2 e un compagno di 30, francese, che fa il cantautore e vive a Parigi. Questi i primi dati, quelli essenziali, di Vittoria Bottasini. Quando era incinta di Théophile, detto Pitù, da brava milanese di Milano, sveglia e pragmatica, ha iniziato a indossare tutti i giorni un comodo paio di pantaloni a zampa d’elefante. Che un giorno si sono rotti. Ha provato a comprarne altri, non li ha trovati da nessuna parte, e alla fine ha fatto come fanno di solito quelli pratici: se li è cuciti da sola. Non lo sapeva, ma aveva appena dato il via a C’est la V, piccola azienda di abbigliamento che dice tanto sull’arte di arrangiarsi che diventa business. Made in Milano, ovviamente.
Com’è andata?
«Era la primavera del 2013, avevo un pancione che cresceva e tanta voglia di star comoda. Il primo paio che ho fatto era in pizzo nero. Le mie amiche – quando me l’hanno visto addosso – hanno iniziato subito a dirmi: “Belli, dove li hai presi? Li hai fatti tu? Li voglio anch’io”. E così ho iniziato a farne un po’, sempre in pizzo».
Li faceva lei a mano?
«No. Io faccio solo il cartamodello, a confezionarli è una sarta. Io non so cucire, non so fare neanche la piega. Ho studiato per fare altro».
Che cosa?
«Scenografia per il cinema all’Accademia delle Belle Arti di Brera, zona di Milano che da allora mi è rimasta nel cuore. Mi sarebbe piaciuto tanto occuparmi di giardini. Però la vita si è messa di traverso».
Cioè?
«Dopo l’Accademia sarei dovuta andare a Parigi a frequentare la scuola di Patrick Blanc, un architetto famoso nel mondo perché ha inventato i giardini verticali. Non sono più partita perché si è ammalato papà, che dopo un anno e mezzo è morto».
Che cosa faceva suo padre?
«Il costruttore. E mamma la casalinga. Lui milanese, lei mantovana».
Milano bene, giusto?
«Sì. Da quando è morto il mio papà, però, è tutto diverso. Prima non mi è mai mancato niente, adesso faccio attenzione a tutto. Anche perché io e mia sorella vogliamo che mamma invecchi tranquilla. Ma va bene così. La vita è cambiata, noi siamo cambiati».
Con C’est la V riesce a vivere autonomamente?
«Sì, certo. Io e la mia famiglia, Pitù e il mio compagno Mathieu, viviamo senza chiedere niente a nessuno. Mathieu che ha 30 anni e a Parigi ha appena firmato un contratto discografico, per ora non è un milionario, ma ci stiamo dentro».
Che esperienze di lavoro ha fatto prima di mettersi a produrre pantaloni?
«Ho fatto le vetrine per lo show room di Luisa Beccaria, che mi ha trattata come una figlia, e per tre anni ho fatto l’assistente stylist per giornali come Vanity Fair e Marie Claire. Poi, causa crisi, che nell’editoria è una specie di bagno di sangue, mi hanno fatto fuori. È così mi sono dedicata completamente a C’est la V (che poi vuol dire: “È la vita”, ma anche “È la V” di Vittoria, ndr). Prima per gioco, provando e riprovando con la sarta di mamma sotto casa, poi dal 2014 più seriamente. Vendendo tutto online».
Senza un negozio?
«Neanche uno. Tanto negozi mi hanno chiesto di avere i miei pantaloni, ma ho rifiutato perché visto il periodo storico non voglio venderli a caro prezzo. Voglio guadagnare un po’, ma non voglio esagerare. Voglio che la gente sia contenta. Mi piace fare roba figa a un prezzo ragionevole. Anche perché… lo dico?».
Lo dica.
«Via Montenapoleone e dintorni è il mercato della fuffa. Si vende a prezzi assurdi roba che non vale più di tanto».
I suoi pantaloni quanto costano?
«95 euro, che non è poco. Potrei guadagnare di più se aumentassi la produzione, ma per ora sto bene così, piccola piccola. Anzi, se in futuro farò numeri più alti, vorrei farlo abbassando i prezzi».
Che cosa hanno di particolare i VPants, come li chiama lei?
«Le 1500 fantasie che compro in Italia, Francia, Stati Uniti e Germania e che, volendo, posso abbinare in ogni modo con 300 tessuti stretch diversi. Tutto è personalizzabile in maniera semplice e sofisticata, e in taglia unica per essere modellato su ogni corpo. Si confeziona a richiesta e in una settimana parte la spedizione. Gli ordini li prendo dai social network e dal sito. Prima era un casino».
In che senso?
«Non ero attrezzata per pagamenti con Paypal e carta di credito e quindi l’unico modo per pagare era farmi un bonifico. Prima ero solo una ragazzina che si divertiva, adesso mi sono organizzata. Siccome non so star dietro alle cose fiscali, ho tre giovani amici molto preparati che mi stanno aiutando a capire tutto e anche a trovare fondi per le attività imprenditoriali giovanili in Regione e nella Comunità Europea. Vedremo».
Le milanesi hanno risposto?
«Benissimo. Girando per Milano ne vedo tanti addosso. Mi faccia dire, poi, che il laboratorio che cuce i miei pantaloni dà lavoro solo a italiani. Non ce l’ho con nessuno, sia chiaro, ma il mio è vero Made in Italy. Grazie a loro adesso faccio anche tuniche, gonne lunghe, salopette e camicie coreane da uomo. Il bello è che non ho investito un euro».
Che vuol dire?
«Non li avevo. Ho fatto un paio di pantaloni, poi due, dieci, e ho sempre reinvestito. Come zio Paperone e il suo nichelino. Se domani chiudo, ho solo guadagnato. Questa è la mia storia».
In un’altra città italiana avrebbe potuto fare altrettanto?
«Non credo. Milano è la città più dinamica e concreta d’Italia. Può essere giudicata male in mille modi, ma è comoda, reattiva e offre tanto, a meno che non si dorma in piedi».
Città un po’ chiusa?
«Aperta e pronta a tutto se si parla di business, per il resto, sì, è un po’ chiusa. È difficile che un milanese si apra davvero. Di solito stanno fra loro, per gruppi sociali. È brutto da dire, ma è così. Se sei straniero è più facile, ma questo perché siamo un po’ provinciali».
Quelli della Milano bene anche un po’ fighetti e snob…
«Un po’ è vero, ma io sto bene con tutti. Non mi riconosco nel cliché: ho frequentato solo per un anno una scuola privata e sono cresciuta in maniera differente rispetto a tutte le persone che mi circondano. E poi mio padre era diverso, senza fronzoli, era un uomo di mare che amava la barca a vela. Non so se mi spiego».
Suo figlio è nato a Milano o Parigi?
«A Milano, al Buzzi. Il suo papà era d’accordo, era al mio fianco, anche se la considera troppo provinciale. Io amo Parigi, ci vado spessissimo, ma non ci vivrei mai. E lo stesso vale per città come Londra e New York. Troppo grandi. Se dovessi andar via da qui non andrei mai in un’altra città, ma in un paesino sul mare. A Cadaques, per esempio, dove ho conosciuto Mathieu. Però non so se ce la farei a vivere lontano da una città, anche se mi spaventano».
Vale anche per Milano?
«Certo. Me la ricordo bene la mia adolescenza e se penso che mio figlio potrebbe vivere qualcosa di lontanamente simile, mi sparo prima. La droga è ovunque, come l’alcol e le tentazioni di ogni tipo. Milano può essere molto pericolosa».