ATTILIO GRILLONI ## Milanese di Udine, 45 anni, produttore Tv

Il giro per arrivare a Milano, Attilio l’ha fatto bello largo. Mamma americana, papà siciliano, moglie canadese d’origine armena, Attilio è nato a Udine e dai 21 ai 24 anni ha vissuto e lavorato in mezzo ai boschi della Toscana. In città è arrivato nel 1994, per amore – di una donna e della scrittura – e qui è rimasto. Nonostante i quattro passaporti diversi in due (i suoi e quelli di sua moglie Sciake, madre di suo figlio Nicola, 3 anni). Attilio è l’ad di 3Zero2Tv, società di una multinazionale come Euromedia Group (in precedenza è stato ad di Zodiak Active). Ci incontriamo a fine giornata in un baretto sui Navigli, visto che un bicchiere di vino – anche due – male non fa.

Perché a un certo punto della sua vita venne proprio a Milano?
«Per esclusione e per passione. Mi spiego meglio. Dopo la maturità mi iscrissi all’università, feci un esame, e poi – al posto del servizio militare – andai a fare per un anno l’obiettore di coscienza. Poco prima di finire, feci due colloqui per Videomusic, mi presero come veejay, e mi trasferii in Toscana, dalle parti di Lucca, dove per tre anni feci una vita decisamente strana».
Strana come?
«Io e gli altri vivevamo in mezzo al bosco, facendo una vita bucolica. Ogni tanto però arrivava un elicottero, scendevano i Kiss o le Banarama, gente così, li intervistavamo e poi restavamo ad aspettare che arrivassero i prossimi. Andò avanti così per tre anni, poi cominciarono i casini».
Cioè?
«Cecchi Gori comprò Videomusic, cambiò un po’ tutto, e io iniziai a fare su e giù con Bologna e Milano per motivi sentimentali, fino a quando mollai tutto per stabilirmi a Milano. Qui mi sarebbe piaciuto fare il giornalista, ma dopo i primi tentativi di collaborare con qualche giornale capii che che c’era molto nonnismo e poco guadagno. La Tv continuava a piacermi, così iniziai a lavorare come autore per Italia Uno e Mtv. Non mi sono più fermato».
All’inizio Milano come le sembrò?
«Fantastica, anche perché non è che avessi esperienza di altre grandi città a cui paragonarla. Conoscevo la California e la Sicilia, dove ogni anno andavo a fare le vacanze dai parenti ed ero sempre quello “strano”, la campagna intorno a Lucca – dove in pratica avevo vissuto per tre anni fuori dal mondo – e Udine che è Udine, cioè zero senso dell’umorismo e gioia di vivere. Ero un po’ come Renato Pozzetto…».
In che senso?
«Mi sentivo un po’ come il provinciale dei suoi film, spaesato. Mi sembrava che a Milano avessero tutti una marcia in più, cosa che non mi spaventò più di tanto, anzi, me la fece subito apprezzare. Pensai: ecco l’Italia cosmopolita che accoglie gente da tutto il mondo e finalmente guarda avanti. Milano, in fondo, è così. La vita culturale, ma non solo quella, è gestita spesso da persone venute da fuori che impongono gusti nuovi, mentalità diverse, progettualità sorprendenti. Insomma, non è tutto in mano ai Brambilla».
Sul fronte dei rapporti umani come “gira” la città?
«Da questo punto di vista Milano non è difficile come Los Angeles, per esempio, dove ti fanno sputare sangue prima di accettarti. Diciamo che a ventiquattro anni non avevo di sicuro capito che questa sarebbe stata la mia città, ma da ventuno che vivo qui ogni volta la scelgo con più affetto e convinzione. Voglio bene a Milano, devo tanto a questa città. Gli incontri più importanti della mia vita, a partire da mia moglie, li ho fatti qui».
È la più internazionale delle città italiane?
«Sì, anche perché non c’è altro. È un po’ provinciale, ma è sicuramente una città permeabile, che fa sue tante cose e le trasforma, quasi sempre normalizzando, eliminando gli spigoli, imborghesendo. Il bello degli italiani, però, è che avendo barriere culturali molto sfumate per via della nostra Storia, delle invasioni di ogni tipo, non hanno grandi rigidità. Io non conosco una sola persona che creerebbe problemi se un figlio sposasse una rumena, una giamaicana, un’africana… A Milano questo si sente più che altrove, visto che è il luogo dove in pratica vivono tutti gli italiani. Una città molto liquida, fluida, però mai estrema o all’avanguardia. Pensi all’architettura e a quello che hanno fatto al Louvre di Parigi».
Che c’entra?
«La Piramide di vetro l’hanno costruita almeno trent’anni fa (nel 1989, ndr), qui una cosa simile è impensabile. Adesso hanno tirato su i grattacieli, belli, ma niente di nuovo. La Darsena rifatta è carina, ma potevano osare di più. Per fortuna ci sono gli stilisti che hanno regalato alla città spazi come la Fondazione Prada, bellissima, e l’Armani Silos».
Quando i milanesi riescono a tirare fuori il meglio?
«Quando sono propositivi, determinati, concreti. Sgobboni. Cosa che qui riesce bene a tanta gente, forse anche troppo. Adesso c’è addirittura chi ostenta riunioni a notte fonda… Però meglio così che il contrario, cioè che se lavori sei un coglione, per intenderci».
Quante Milano esistono?
«Tante e molto diverse fra loro. Faccio due esempi. Quella della Milano bene, i Sancarlini con venti cognomi, vestiti tutti uguali, che si fidanzano e si riproducono fra di loro e anche geneticamente si somigliano. Quelli che vanno al Radetzky per l’aperitivo, a Santa Margherita d’estate, a Courmayeur d’inverno. Io li trovo vecchi e provinciali. Che alla città, alla fine, danno poco. Più che altro consumano. E poi c’è l’altra Milano, quella della gente che fa lavori creativi e intellettuali, che cerca nuove formule sociale e professionali, vuole fare tanto per vivere meglio la città, senza scappare per il week end o dalle responsabilità, perché la città è di tutti e nel bene e nel male la fanno quelli che ci vivono».
In futuro si immagina altrove?
«Non lo so. Milano dà un imprinting particolare che porta a essere lucidi, attenti, competitivi. Per ora va bene così, e qui stiamo».
A volte è una città troppo formale?
«Sì, ma all’inizio di qualsiasi rapporto forse è meglio che sia così. Per andare oltre, se la situazione lo merita, c’è tempo. L’immediatezza e il calore di Roma o Napoli fanno piacere ma spesso lasciano il tempo che trovano».
Dopo vent’anni può dirlo: Milano come l’ha cambiata?
«Da udinese mezzo americano e mezzo siciliano, cioè un meticcio culturale, Milano ha accentuato la mia naturale predisposizione a cercare di capire e incontrare gli altri, i diversi, i lontani».
Più milanese, americano, siciliano o cosa?
«Milanese per cultura, americano per valori e approccio alla vita positivo, siciliano a tavola».
Quando Milano le sembra avara?
«Quando la gente non riesce a smollare mai e a non accettare l’imprevedibilità, l’improvvisazione, la naturalezza. Cioè le cose belle del Sud. Di buono, però, c’è che questa città può essere continuamente plasmata. Milano in qualche modo cambia sempre. Roma, tanto per citare un luogo comune, è immutabile».
Perché qui si lamentano tutti?
«Perché nella testa di tanti il lamento è da fighetti. Quelli che si lamentano del traffico dovrebbero ricordare che noi tutti siamo il traffico, che cazzo ci vuole a capirlo? A chi protesta per l’Expo, la Settimana della moda e il Salone del mobile, ricordo solo che queste sono risorse preziose, lavoro e soldi, per tanta gente».
La crisi nel suo mondo è passata?
«Ci siamo ancora dentro. Le reazioni, però, sono state buone: nessun piagnisteo e tanta voglia di adeguarsi alle circostanze ma senza sputtanarsi, che poi vuol dire aver fatto miracoli con budget ridotti, abbassato le pretese ma non la qualità».
C’è un posto in città a cui si sente più legato?
«Via Paolo Sarpi, dove ho vissuto undici anni, prima da single e poi con la famiglia. Bellissima. Gli stereotipi sui cinesi sono tutti veri, ma trovo che in quella zona della città la vecchia Milano e i cinesi si siano integrati alla perfezione».
Favorevole o contrario agli archi cinesi in via Paolo Sarpi?
«Favorevole. Secondo me il contrasto fra i palazzi dell’800 e gli archi con i dragoni sarà bello da vedere».
La prima preoccupazione da papà milanese?
«La paura per mio figlio è che in una città come Milano possa avere contatti precoci con diversi pericoli, per esempio la coca che qui circola già nei licei».
Al posto di Pisapia chi le piacerebbe avere come sindaco?
«Lui mi ha deluso. A via Padova la gente era contenta di avere l’esercito per strada e lui l’ha tolto per una questione puramente ideologica. Comunque ci vorrebbe un sindaco olandese: si girerebbe su tram elettrici, potremmo caricare sempre le bici in metro, vedremmo multato chi guida telefonando… Cose sane, utili, normali».

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