FRANCESCA FOGAR ## Milanese di Tradate, 39 anni, giornalista

Milanese figlia di milanese – e che milanese – Francesca Fogar quando parla della sua città lo fa in maniera emozionante e coinvolgente, anche perché spesso e volentieri quello che dice ha a che vedere proprio con suo padre: Ambrogio Fogar, il celebre navigatore ed esploratore morto nel 2005, tredici anni dopo l’incidente d’auto che lo paralizzò dalla testa in giù. Nata per caso a Tradate, in provincia di Varese, quarant’anni fa (li compie il 17 novembre), Francesca è una giornalista, autrice Tv, scrittrice. Mi ha dato appuntamento a casa sua, dalle parti di Corso Genova. I figli erano all’asilo. A un certo punto è arrivato un corriere per consegnarle un enorme album pieno di foto, regalo di un’amica. «Sono state scattate durante una festa incredibile a Lugano, in Svizzera, una di quelle che la Milano bene sa organizzare in maniera sfavillante».

La sua Milano?
«Per niente. Però sono curiosa e mi diverte avere amici di ogni tipo: quelli con cui giocavo con la corda al parco, quelli dell’università, quelli del lavoro e anche quelli là…».
Quelli di una Milano molto chiusa, o no?
«Per quella che è la mia esperienza, no. Se uno resta se stesso, non ha imbarazzi né timori, e in pratica se ne frega di soldi e status, è una Milano aperta e tranquilla come le altre. Forse bisognerebbe cominciare a dire che questa città è vittima di troppi luoghi comuni».
Com’è cambiata negli ultimi anni?
«Tanto, come è normale che sia. Per me resta sempre un punto di riferimento importante. Negli ultimi anni sono stata a lungo a Parigi, Londra, Bologna, ma alla fine qui sono tornata. Ho dei ricordi della mia infanzia meravigliosi. Mio padre era incredibile, trasformava tutto in gioco».
Come?
«A 8-9-10 anni andare in giro con lui diventava un’avventura fantastica. La spesa al supermercato o una capatina dal calzolaio erano lo spunto per racconti fantasiosi e “viaggi” affascinanti. Mi fece scoprire Milano in maniera veramente unica. Prima di andare al parco Sempione, per esempio, dove andava a correre, cominciava a raccontare che un tempo era una giungla inesplorata dalle mille bellezze nascoste, pieno di animali esotici e pericoli da evitare. Ecco, Milano per me non era solo quella dell’Istituto delle Marcelline a cinquanta metri da casa, in piazza Tommaseo, ma un mondo fatto di strade e palazzi che diventavano montagne da scalare fra colori, magie e segreti di ogni tipo. Papà era così. Mi caricava in macchina e via».
Per dove?
«Gli piaceva portarmi con sé ai vari appuntamenti che aveva in città e prima o poi si finiva sempre alle Varesine, le giostre di Porta Nuova che adesso non ci sono più. O a via Montenapoleone, che si trafsormava in una zona della città dove un tempo abitavano i principi di tutto il mondo e adesso c’erano i ricchissimi della città, che per entrare dovevano attraversare un cancello d’oro massiccio… O a via San Marco e via Senato, dove mi raccontava come era la città prima che i Navigli venissero insensatamente chiusi e coperti. Per non parlare di quando andavamo a guardare le enormi luminarie pubblicitarie montate sul palazzo di fronte al Duomo. Che meraviglia… Ecco la mia Milano, è questa qui».
La nuova città dei grattacieli le piace?
«Non mi incanta come da bambina, ma va bene così. Sono stata in cima al Bosco Verticale ed è bellissimo. Il colpo d’occhio è straordinario».
Oggi vivere a Milano come le sembra?
«Facile, veloce, pratico. È una città che vive un cambiamento continuo. È stata molto contaminata in questi anni pur conservando in qualche modo la sua identità rigorosa, riservata e disciplinata. I milanesi doc sono ormai rari ma dall’incontro con tutti gli altri, italiani e no, nascerà – è già nata – la Milano del futuro. Il milanese è meno estroverso rispetto al romano o al napoletano, ma è curioso e attento e con il tempo è capace di grande empatia e cordialità. Qualcosa si perderà, qualcosa di nuovo è già arrivato e arriverà. Mi dispiace per la nebbia, quello sì».
In che senso?
«Qui è cambiato anche il clima. Prima da ottobre a marzo c’era il nebiùn, che esaltava Milano, la rendeva ovattata e misteriosa. Adesso è rimasto solo il cielo bianco, e non è proprio la stessa cosa».
È una città provinciale o internazionale?
«Metà e metà. Provinciale lo è come tutta Italia, forse meno, di sicuro è la più internazionale. Qui si fanno affari con tutto il mondo e gli stranieri vengono a vivere e a lavorare, quindi la influenzano più di un turista che passa e va. Roma per esempio, dove ho vissuto per motivi di lavoro un anno, è più grande, ma è più paese».
Differenze maggiori?
«È una città strana, Roma. La sua bellezza i primi sei mesi mi ha intimorito, tipo sindrome di Stendhal. Avevo un po’ d’ansia, che poi ho vinto riuscendo a conoscerla meglio. Roma sembra aperta, ma non è così. Bisogna avere tante chiavi per poterci entrare davvero. La romanità è molto più difficile della milanesità. Milano fa capire subito com’è, anche nella sua asprezza. Roma invece inganna, fa credere che tutto sia facile, amichevole, immediato. Non è così».
I romani a Milano sono quelli che si lamentano di più…
«Lo so. Loro e quelli che vengono dal mare. Poi però si abituano e non vanno più via. Alcuni amici di Palermo mi dicono che per loro Milano è bella, pulita, elegante. Le donne tutte altezzose e belle, gli uomini camminano veloci e sembra sempre che abbiano grandi missione da compiere. Non male. Al contrario mi ha colpito molto quello che poco tempo fa mi ha detto un amico di Sassuolo sulla crudeltà di questa città».
Cioè?
«Che qui si perde spesso il valore delle cose semplici e dell’essere perbene. Per fare un esempio mi ha detto che a Milano, quando non si rinnova un contratto di lavoro, spesso neanche lo comunicano all’interessato. Altrove non succederebbe, si troverebbe il tempo per spiegare come sono andate le cose. È abbastanza vero, questo. A Milano con la scusa dello stress, della competitività, e adesso anche della crisi, la gente autorizza se stessa a fare le cose peggiori. Non va bene».
Questi anni di crisi come li ha vissuti?
«Come tutti, o quasi. La città ha subìto. La crisi si vede e si sente ovunque. Ma passerà, sono fiduciosa. Credo nelle capacità di recupero di Milano».
Posti a cui è maggiormente legata?
«Ne ho centinaia. L’Arco della Pace, piazza Vetra, la Torre Branca, la Triennale, il campo sportivo Giuriati, in zona Piola, dove andava ad allenarsi papà, Parco Sempione, il più bello e più grande… E poi via Vitruvio, dove papà è cresciuto, Brera, la Martesana, il vecchio Le Trottoir, il bar Rattazzo…».
Chi più di lei può suggerire un percorso avventuroso in città…
«Nella libreria della Triennale ho trovato un libro sui vecchi Navigli: ecco, andare sulla tracce di quella Milano d’acqua di una volta può essere molto affascinante».
Durante il fine settimana scappa o resta in città?
«Da quando ci sono Lupo e Diana, i miei gemelli di caccia, non si va da nessun parte. Si va al parchetto dell’Anfiteatro in via Molino delle Armi, spazio aperto a tutti ma sempre deserto perché tutti credono sia chiuso. È bellissimo».
Al posto di Pispaia chi le piacerebbe?
«Non lo so. Però, visto che non mi piacciono i populismi e le soluzioni di pancia, spero che non si candidi Salvini».
Ce la potrebbe fare?
«Temo di sì».
La moschea va fatta?
«Sì. Milano è una città civile, meglio non far finta di niente».
Le novità piacciono ai milanesi?
«Penso proprio di sì. Sono curiosi, fiduciosi, moderni. I milanesi si lanciano facilmente quando vedono qualcosa di nuovo».
Come suo padre.
«Lui era il primo. La sua voglia di sfidare se stesso e il mondo è nata qui. Mia nonna mi raccontava che papà in via Vitruvio stava ore e ore davanti alla finestra a fantasticare su avventure di ogni tipo. Poi è cresciuto. Ed è partito».

 

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