LUCA FANTACONE ## Milanese di Ovada, 50 anni, discografico

Luca Fantacone è il direttore marketing del repertorio internazionale di una multinazionale come la Sony Music. Insomma, è un discografico. Al contrario di tanti suoi colleghi – ormai è così che funziona – Luca la musica la conosce (è una specie di enciclopedia), la suona (con il suo basso), la capisce (ha scoperto i Verdena, per dirne una). Parlare di Fantacone senza dire che sono (quasi) una cosa sola – lui e la musica – sarebbe come fargli un torto. Che non è mai una bella cosa. Soprattutto se il soggetto in questione è una brava persona. Cinquant’anni, sposato, una figlia – Cloe – laureato in Scienze politiche, Luca Fantacone è milanese dal 1993.

Da dove viene?
«Da Saronno, in provincia di Varese. Però sono nato a Ovada, il paese di mia madre a due passi da Alessandria, in Piemonte. Fino a quattro anni ho vissuto a Brindisi, visto che mio padre – genovese – lavorava lì per la Montedison. Poi sono tornato a Ovada, dove ho fatto la “primina”, e a sei anni sono finalmente arrivato a Saronno: mio padre nel frattempo era stato trasferito in zona. Un bel giro».
Vista da Saronno com’era Milano?
«Attraente, magica, ricca di opportunità. A Saronno ho fatto tutto il liceo e in quegli anni appena possibile venivo in città soprattutto per assistere ai concerti. A volte anche per dare un’occhiata alle vetrine di Fiorucci, incontrare i pattinatori acrobatici e i ragazzi che facevano breakdance con i ghetto blaster (impianti stereo portatili, ndr). Per me era roba pazzesca, mai vista prima. Da universitario invece, quando facevo il pendolare, ho scoperto un’altra Milano, quella punk e new wave. Parlo di tutta la zona di via Torino fino al Carrobbio e le Colonne di San Lorenzo, dove c’erano i negozi di dischi, oggettistica varia e gadget di ogni tipo. La Milano dell’epoca, cioè a metà degli anni ’80, era vitalissima, fantasiosa, e molto ricettiva dal punto di vista musicale. C’era una creatività inimmaginabile».
Ha avuto periodi più o meno punk, da rocker o altro?
«Sì, certo. Sono sempre stato un rockettaro incallito. A Saronno c’era un gruppetto molto attivo, ma piccolo, di una decina di “darkettoni”, qui invece c’era una vera e propria comunità di appassionati di musica che si muoveva da un parte all’altra della città: da piazza Diaz dove c’era Transex, negozio di dischi anche metal che vendeva magliette, spille e poster, a Corso di Porta Ticinese, da sempre zona di punk, post-punk, dark e fan della scena alternativa. Se da quelle parti passavano i “paninari” era solo perché avevano voglia di prendere un po’ di ceffoni».
Lei si dava da fare?
«Mai fatto a botte. Però andavo da quelle parti come un qualsiasi ragazzo di Saronno che a Milano non aveva ancora la compagnia. In questa zona frequentavo negozi di dischi come Zabriskie Point e di strumenti musicali come New Kary – all’epoca già suonavo in una band – e locali come il Pois. Insomma, mi buttai subito nella vita milanese».
Come le sembrò da residente?
«Bella ed eccitante. Era il posto dove volevo stare perché qui c’era una grande offerta di quello che più mi interessava: musica. Non l’ho mai subita Milano e proprio in questa fase cominciai a conoscerla veramente. Non era più il posto dove venire a vivere esperienze mordi e fuggi per il weekend».
Quando si è milanesizzato?
«Nel ’93, quando mi sono trasferito definitivamente. Come appartenenza spirituale, chiamiamola così, anche prima visto che questa città mi corrisponde da sempre. Ho fatto il grande passo dopo un anno di lavoro nella discografia perché non potevo continuare a fare su e giù. Dovevo e volevo conoscere la città fino in fondo».
La milanesità quando l’ha incontrata?
«ll primo grande impatto con quello che visceralmente fa parte della cultura e del carattere di Milano l’ho avuto nel 1985, in modo un po’ paradossale, cioè quando c’è stata la famosa nevicata. Ecco, di fronte a un evento atmosferico così devastante, vedere la reazione della gente è stato davvero emozionante. Milano non era solo da bere, la città socialista di Craxi e Tognoli in cui i soldi contavano più di ogni altra cosa, ma anche altro: solidarietà, spirito di sacrificio, senso della comunità. La gente si ricompattò in maniera incredibile. Io e tanti miei compagni di università ci mettemmo a spalare la neve per giorni e giorni. Io venivo da Saronno, posto da 30 mila persone, e conoscevo Ovada, che ne conta 10 mila, e non avevo mai visto tanta gente reagire così».
All’inizio la sorpresa più grande che le riservò Milano quale fu?
«Mi colpì, e continua a farlo, per la facilità con cui si lascia attraversare e riesce a far incontrare la gente, che qui da sempre progetta e trova soluzioni ai problemi. È molto dinamica e socievole, Milano. I vecchi luoghi comuni sull’inospitalità e la freddezza di questa città ormai fanno ridere. Milano è di tutti».
È la città più italiana d’Italia o la più internazionale?
«Credo sia la più internazionale perché meno orgogliosamente attaccata alle proprie radici, e quindi più aperta al cambiamento, agli altri, al futuro. Rispetto a città come Londra o Parigi ovviamente è un’altra cosa, ma questo ha a che vedere con la Storia».
Milano è in ripresa o è ancora zoppicante?
«La crisi è stata terribile, ma a me sembra che stia recuperando. Quello che è stato fatto nell’area di Porta Nuova con i grattacieli e tutto il resto, e la riconversione di spazi abbandonati tipo quelli della Fondazione Prada in via Ripamonti, dimostrano che Milano è lanciata verso un futuro importante, più simile a quello di metropoli come Berlino, Londra, New York».
La Milano artistica?
«La fase più talentuosa, sorprendente e reattiva c’è stata negli anni ’90. In quel periodo si poteva fare di tutto, spesso molto bene. Anche se i talenti non erano solo locali ma spesso di Bologna, Roma, Napoli, Milano è sempre stata la capitale del business, delle strutture, di un sistema ricettivo. Qui si realizzavano i progetti. Tutti sapevano che se non passavi da Milano non succedevano le cose. Ecco, da questo punto di vista Milano adesso non è in grande forma. Non c’è più il fermento di una volta, le proposte artistiche sono tutte livellate verso il basso e la voglia di rischiare è scomparsa. C’è stato anche un brusco calo delle strutture di registrazione, perché molti hanno cambiato business. E se non c’è progettualità di un certo tipo, gli investimenti vanno altrove. C’è poco da fare».
Il brutto di Milano?
«Il tempo. È banale, ma è così. Per il resto, il brutto di Milano è il brutto dell’Italia: tutto potrebbe essere più grande e importante, dovremmo ragionare per riuscire a valorizzare quello che abbiamo più di chiunque altro: arte e cultura. Il nostro petrolio. Detto questo, al momento Milano non vede nemmeno da lontano altre città italiane. Mi dispiace, ma è così».
Il difetto peggiore dei milanesi?
«Diciamo che il milanese sa di avere delle marce in più ma se la “mena” un po’ troppo».
La carta in più?
«I milanesi, di nascita e d’adozione, hanno dentro – o assorbono in maniera velocissima – un’attenzione verso le novità che in Italia è più unica che rara».
Mai pensato di andare via da Milano?
«Sì, una ventina di anni fa. Andavo spesso a Roma e la storia, il clima, i rapporti umani mi avevano completamente conquistato. Per un paio di anni ho pensato seriamente di trasferirmi, era una questione di qualità della vita. Poi frequentandola di più ho capito che è proprio Milano la città perfetta. Ha la giusta dimensione. È grande ma non troppo, è vivace, curiosa, ricca di tutto. Roma è bella ma troppo complicata, difficile, inefficiente. Milano, per apprezzarla di più, bisogna alzare la testa».
In che senso?
«La città è più affascinante di quello che sembra. Bisogna guardare in alto per vedere che è molto più bella e intrigante di quanto si possa pensare se ci si ferma ai luoghi comuni. A quasi 50 anni, posso dirlo, è il posto dove sto e dove voglio rimanere. Mi piace Milano, e negli ultimi dieci anni ancora di più».
Il suo luogo del cuore?
«Via Tenca, sede della Polygram, la casa discografica dove ho trascorso quelli che considero gli anni migliori della mia vita professionale. E poi via Ravizza, dove ho avuto la mia prima vera casa, quella un po’ più grande dei 26 metri quadrati del primo appartamentino in via Frisi, una traversa di Buenos Aires che mi ha fatto conoscere la Milano multirazziale. Nel mio palazzo e in tutta la zona c’erano nigeriani, eritrei, somali, prostitute, malavitosi, spacciatori… Un bel mix. Stimolante, a volte preoccupante, ma anche molto divertente. Insomma, Milano».

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