MICHELE MONINA ## Milanese di Ancona, 47 anni, narratore

Questo signore che vedete nella foto qui sotto, che non assomiglia a Gabriel Garko né a Carlo Conti, e nemmeno a uno qualsiasi dei Dear Jack, si chiama Michele Monina e scrive di canzoni per ilfattoquotidiano.it da poco più di un anno. In tutto questo tempo è riuscito a far incazzare tanta gente – artisti, discografici, addetti stampa etc. – a farsi leggere tantissimo – finora circa sei milioni di contatti – a farsi detestare da buona parte dei giornalisti che si occupano più o meno delle stesse cose. Al contrario loro – che quasi sempre annoiano per mancanza di notizie, stile e dna da vecchi democristiani dorotei – Monina ha una scrittura fluida e competente, magari a volte un po’ troppo volgare ed egoriferita, ma sempre e comunque piacevole e irriverente. Roba tipo, recensendo il nuovo album di Laura Pausini: «Se avesse voluto essere più attinente al concept del disco (Simili, ndr), questo lavoro avrebbe potuto tranquillamente intitolarlo “A cazzo di cane”…». Insomma, Monina non le manda a dire. Se seguite il Festival di Sanremo e, come tutti, giocate al massacro davanti alla Tv in compagnia di parenti e amici, segnatevi il nome e ogni tanto buttate l’occhio su quello che scrive. Milanese di Ancona, 47 anni, moglie e 4 figli, ha pubblicato 66 libri – soprattutto musicali – che hanno venduto circa un milione di copie. Al momento è a Sanremo, se qualcuno non lo mette sotto con la macchina, tornerà in città domenica prossima.

Quando è arrivato a Milano?
«Nel 1997. Mia moglie Marina, all’epoca mia fidanzata, venne assunta all’Ibm e ci trasferimmo insieme. Io, dopo aver studiato Storia moderna a Bologna, e aver fatto il servizio civile, nel giro di qualche mese trovai lavoro all’Eurisko: facevo sondaggi e indagini di mercato. Pagato l’affitto, mi restavano in tasca quattro spiccioli e poco più».
Il primo impatto come fu?
«Non c’ero mai stato prima e all’inizio mi sembrò la città più brutta del mondo. Andammo ad abitare in un monolocale dalle parti di corso Buenos Aires. Stavo lì tutto il giorno, a parte le quattro ore che passavo in ufficio. Ricordo che dormivo pochissimo: il primo anno l’insonnia – di cui soffro da tempo – non mi diede tregua».
Da grande che cosa voleva fare?
«Lo scrittore. Conobbi Nanni Balestrini, che all’epoca era uno dei miei idoli. Autore particolare, che scriveva senza punteggiatura e con un gran ritmo, quasi rap – la tesi di laurea che per un solo esame non ho mai discusso, era proprio sul rap – Nanni mi incoraggiò ad andare avanti e così dopo pochi mesi pubblicai il mio primo libro, Furibonde giornate senza atti d’amore, citazione di Anime salve di De André. L’editore era Pequod di Enrico Brizzi».
E poi?

«Continuai a fare sondaggi fino a quando la Mondadori non mi fece un contratto a termine, cosa assolutamente non prevista: non avevo dritte e nessuno mi conosceva. A un certo punto, però, riuscii ad avere un appuntamento con un dirigente. Manco a farlo apposta, la sera prima, alla presentazione di un libro, mi presentarono proprio la persona che avrei incontrato il giorno dopo: Stefano Magagnoli, il capo della narrativa. Mi mise subito in prova come lettore, mi assegnò qualche traduzione dall’inglese, e dopo un po’ mi fece lavorare come consulente e ghost writer. Per anni, se c’era il libro di un cantante italiano da pubblicare, lo scrivevo io. E non solo di cantanti».
Faccia qualche nome.
«Non posso. Le dico solo che il primo romanzo di un autore che piace alle donne, e vende tantissimo, l’ho praticamente scritto io. La prima stesura, la sua, non era in un italiano comprensibile…».
Uno solo.
«Pierluigi Diaco. Il suo Nel 2006 vinco io in realtà è mio. Fa ridere che io abbia buttato giù il manifesto politico di un altro, ma è andata così: lui me l’ha raccontato a voce, io l’ho scritto. Poi, per caso, ci fu la svolta…».
Cioè?
«Nel 2000. Dopo aver scritto un racconto intitolato Il tiracapezzoli, sul sottobosco dei calendari con le donnine nude – pubblicato dalla fanzine di un locale rock di Milano, Il Tunnel – iniziai a recensire dischi per il mensile Tutto, anche questo della Mondadori».
Perché svolta?
«Cominciai a stroncare gli album, cosa mai fatta prima da quel giornale. Il primo fu Invincible di Michael Jackson. Scrissi: usatelo come sottobicchiere, per accecare l’autovelox, o per il tavolino che balla… I fan reagirono assediando la redazione di corso Europa: un casino. Che in un modo o nell’altro si ripeteva ogni numero. La direttrice avrebbe voluto incenerirmi, ma funzionavo: gli artisti dopo un po’ iniziarono a chiedere di essere intervistati dallo stronzo, faceva figo».
Era stronzo, è stronzo?
«Sì, no, forse.  Io ho sempre fatto, e continuo a fare, di testa mia. Per quattro anni a Tutto andò bene, poi la Mondadori chiuse il giornale, non mi rinnovò il co.co.co, e io passai a fare solo libri, quasi esclusivamente di musica. In precedenza, sempre per la Mondadori e per Marco Tropea Editore avevo scritto due libri su Vasco Rossi, Per sempre scomodo e Vasco chi?, entrambi stravenduti. Quindi avevo mercato. Dal 2004 al 2013 ho scritto di tutto. Io e la mia famiglia ci abbiamo vissuto».
Quanti figli ha?
«Quattro, due maschi e due femmine: la grande ha 14 anni, il secondo 10, i gemelli 4».
Oggi come si racconta? Esattamente che lavoro fa?
«Non lo so. Scrivo articoli, libri, canzoni, produco dischi (il 29 gennaio è uscito Bikinirama, primo album dell’omonima pop band femminile, ndr)… Non sono un giornalista, non sono nemmeno un pubblicista. A me non interessano le notizie. Io sono un narratore trasversale».
Fare incazzare funziona, ma alla lunga non corre il rischio di stancare ed essere prevedibile?
«Non lo so. Io mi diverto e sono fedele a me stesso. Ho ripreso a occuparmi di canzoni solo perché Il Fatto mi ha garantito che avrei potuto scrivere sempre quello che volevo».
Il prezzo da pagare qual è?
«L’isolamento, diventare un paria, uno da evitare a tutti i costi. C’è chi me le farà pagare, prima o poi. Per esempio quelli della Sony… A me quasi tutte le case discografiche fanno di tutto per complicare la vita: non mi mandano dischi, comunicati, informazioni varie. Quelle poche volte che faccio un’intervista, mi fanno penare…».
Quanto è lunga la lista di quelli che ce l’hanno con lei?
«Gli addetti ai lavori che non mi sopportano sono sicuramente tanti, ma in generale sono di più quelli che apprezzano quello che faccio. Fra questi anche qualche artista che preferisce avere a che fare con uno che dice come la pensa senza censurarsi».
Tipo?
«Max Pezzali, Dolcenera, Enrico Ruggeri, Cesare Cremonini… Meglio uno come me di uno che lecca il culo, applaude a comando, e dice sempre sì. Detto questo, quelli che mi mandano a fanculo fanno sicuramente più casino, sono più visibili, e quindi sembrano di più».
Quali sono gli artisti che ha fatto incazzare di più?

«Laura Pausini, Lorenzo Fragola, Guè Pequeno, Emiskilla… Quest’ultimo mi ha minacciato fisicamente perché avevo scritto che era la Cristina D’Avena dell’hip hop italiano. Ha messo anche l’indirizzo di casa mia su Twitter…».
E dopo, vi siete mai rivisti?
«Sì, ma ha fatto finta di non conoscermi».
Che cosa è successo con Laura Pausini?
«Niente di particolare. Mi sono occupato di lei e non mi sono genuflesso».
Sua moglie che dice?
«Legge una minima parte di quello che scrivo, lavora, abbiamo quattro figli. Ogni tanto dice di staccare, visto che adesso anche i giornalisti mi attaccano».
Perché?
«Forse per cercare di entrare nel mio circuito social, non lo so, e nemmeno mi interessa saperlo. Voglio tranquillizzarli però: non ambisco a giurie, non mi interessano viaggi e cene gratis, non spizzico ai buffet. E i regalini me li fa mia moglie, con cui sto da 28 anni e va tutto bene».
Lei come produttore collabora con una major: non è imbarazzante essere di lotta e di governo?
«Mi espone tanto, ma non mi imbarazza. Sono due cose completamente diverse».
Di musica capisce o è solo un chiacchierone?
«A 7 anni ho iniziato a studiare violoncello, poi sono passato alla chitarra e alle tastiere. Nel disco delle Bikinirama ho scritte quasi tutte le canzoni assieme a Enrico Ruggeri, Mirò e altri autori».
I suoi riferimenti musicali quali sono?
«Fra gli italiani Enrico Ruggeri, Afterhours, Scisma, Cristina Donà, Luca Carboni, La Crus… E poi Ian Brown degli Stone Roses, Grant Hart degli Hüsker Dü… Tanta roba».
Le hanno mai chiesto di fare qualcosa in Tv?
«Sì. Piero Chiambretti poco fa mi voleva in un suo programma. Avrei dovuto fare il massacratore a comando, una specie di scimmia ammaestrata. Voleva presentarmi come il terribile figlio del diacono…».
Com’è finita?
«“Tu sei matto”, gli ho detto, “non la farò mai una cosa del genere”».
Suo padre è diacono?
«Sì, e io sono un catechista».
Scherza?
«No. Non sono proprio allineatissimo con la Chiesa, ma sono un cattolico praticante, anarchico, che fa catechismo».
Il bello di Milano, oggi?
«Qui, di solito, non ti calcolano. Che non è il massimo della vita, ma non è neanche così male perché – nel mio caso – vuol dire non avere rotture di coglioni. Ad Ancona per via del mio aspetto la polizia mi fermava tutte le settimane. Qui non è mai successo. Ad Ancona ancora oggi quasi tutti mi chiedono quale sia il mio mestiere, qui mi hanno dato un mutuo con il 740 di uno scrittore».
Il brutto?
«Dal punto di vista umano non è mai stata facile. Infatti ho sempre legato con marchigiani e con altra gente venuta da fuori. A parte Gianni Biondillo, Enrico Ruggeri e sua moglie Mirò, che lo è d’adozione, non credo di conoscere tanti milanesi»
Dopo quasi vent’anni si è milanesizzato un po’?
«No. E quando me lo dicono mi incazzo. Sono anconetano, non a caso il mio ultimo libro si intitola Seppellite il mio cuore sul Monte Conero, anche se la verità è che ad Ancona non tornerei a viverci. A meno che non vinca il Nobel e non rientri da imperatore del medio Adriatico…».
Chi ha giù?
«Genitori, fratello e sorella, amici vari. Che vedo d’estate e quando scendiamo a Natale. Mia suocera invece si è trasferita a Milano dopo la nascita dei gemelli…».
Monina, ogni tanto non si annoia a fare sempre il cattivone?
«Io mi diverto come un pazzo. E ho quattro figli, la noia per me non esiste».

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