SIMONE GUIDARELLI ## Milanese di Cagli, 45 anni, stylist

Quando si guarda una foto o un qualsiasi allestimento di moda, dietro c’è il lavoro di uno stylist, che in pratica è quel professionista che decide come mettere insieme tutti gli elementi (vestiti, accessori, oggetti etc.). Tra i più noti e apprezzati stylist d’Italia, e non solo, da quasi vent’anni c’è Simone Guidarelli. Nato a Cagli, in provincia di Pesaro e Urbino, 45 anni fa, a Milano dal 1998, prima di fare lo stylist ha lavorato come ballerino e psicologo. Insomma, si è dato da fare. La sua vita è piena di sliding doors.

Ballava per diletto o per lavoro?
«Scherza? Ero un professionista. Ho iniziato a studiare danza classica a cinque anni. Avevo visto mia cugina ballare sulle punte e fino a quando mia madre non ha iscritto anche me, non ho avuto pace».
Sua madre che lavoro faceva?
«Mamma lavorava nel negozio di fiori di mia zia. Papà invece aveva una piccola azienda edile».
Anni ’70, provincia, danza classica: mai avuto problemi?
«Qualche battuta, ma niente di più. Sono andato avanti fino a 15 anni, quando ho smesso perché avrei dovuto cambiare città per frequentare scuole di livello superiore. Poi ho recuperato tutto a Roma».
Quando si è trasferito?
«Dopo il diploma all’istituto alberghiero, che ho frequentato a Pesaro, sono andato a Roma per studiare Psicologia. Dopo una settimana che ero lì un’amica ballerina mi dice di andare all’Accademia di danza per seguire un corso: vado, conosco un insegnante che mi dice di fare un provino per entrare in compagnia, lo faccio, e su novantotto ne prendono dodici, fra cui me. Per un milione di lire al mese sono andato avanti così fino a 23 anni, dando pochissimi esami. Poi a un certo punto ho smesso: troppa competizione, fatica, tensione. Se ingrassavo mezzo chilo mi guardavano come un assassino. Insomma, ero stufo. Ho ripreso a studiare e in tempi rapidi mi sono laureato. Nel frattempo, ho preso nove chili… Tutta salute».
Va bene, ma la moda? Quando arriva a Milano?
«La moda mi è sempre piaciuta e l’ho sempre seguita. Ho avuto anche la fortuna di imparare tutto sui tessuti grazie al mio fidanzato scozzese, uno stilista che faceva consulenze per John Galliano, Rifat Ozbek, Laura Biagiotti e tanti altri. Sono arrivato a Milano grazie a lui. A un certo punto gli hanno offerto un buon lavoro e io l’ho seguito. Era il 1998».
Che cosa si è messo a fare?
«Ho trovato il modo di fare tirocinio di psicologia per dare l’esame di Stato, che ho subito superato. Poi mi hanno preso all’Arpa, Associazione di Ricerca per la Psicologia Applicata, il centro di Cesare Musatti. Per due anni ho lavorato quattro ore al giorno con gli psicotici. Per me è stata un’esperienza fondamentale e di grande introspezione personale».
Com’erano i pazienti?
«Malati un po’ speciali. Che io dovevo contenere con delicatezza. Ce la facevo, ma poi mi restava tutto dentro. E dopo un po’ ha iniziato a pesarmi. Diciamo che poi il destino mi ha portato a fare altro. Tramite il mio fidanzato ho conosciuto una stylist che, a sorpresa, mi ha chiesto di farle da assistente per il mensile Men’s Health, che sarebbe uscito in Italia nel giro di un paio di mesi. In pochissimo tempo ho chiuso con la mia vita da psicologo – avevo intenzione di aprire uno studio nelle Marche – e mi sono lanciato. Per tre anni ho girato il mondo, facendo una vita fantastica».
E poi?
«Poi sono passato a Elle grazie a Daniela Giussani. Da allora ho lavorato con giornaliste a cui devo tantissimo come Micaela Sessa e Cristina Lucchini, e fotografi come David Bailey, Patrick Demarchelier, Greg Lotus, Koto Bolofo. Grazie a loro ho realizzato quasi cinquanta copertine di Vanity Fair e altrettante di Harper’s Bazaar e Glamour».
Avrebbe fatto tutto questo anche in un’altra città?
«No. Qui ho incontrato gente che ha visto in me quello che neanche io sapevo di avere. Professionalmente a Milano devo tantissimo, a New York e Londra nessuno mi avrebbe dato lo stesso spazio».
Come ci sta a Milano?
«È una città che uso. Ci vivo comodamente, apprezzo il suo rigore, la disciplina, il metodo. La concretezza. Qui ho anche comprato la mia prima e unica casa, il mio gioiellino. Ma l’amore è un’altra cosa. Per quanto mi impegni a studiarla e a cercarla ovunque, la bellezza qui non l’ho trovata».
Dal punto di vista umano?
«Ci sono tanti stereotipi su Milano, e purtroppo sono quasi sempre veri. Ieri io e la mia assistente avevamo quattro borse da trenta chili da scaricare. A un certo punto si sono spezzati i manici e nessuno per strada si è fermato a darci una mano. Nessuno».
Non è la città dove starà per sempre, giusto?
«Adesso è la mia base, poi si vedrà. Nel mio lavoro voglio realizzare cose che gli altri non hanno ancora fatto. Negli ultimi due anni, per esempio, ho iniziato a usare i social network seriamente e mi stanno portando tantissimo. Voglio raccontare la mia vita. La verità di quello che sono mi ha sempre fatto vincere. Quando ho compiuto 40 anni mi sono chiesto: “Se morissi adesso, saresti felice di quello che hai fatto finora?”».
La risposta?
«Sì. Ho sempre fatto quello che volevo senza mai smettere di essere me stesso e continuando sempre a coltivare relazioni umane. Voglio continuare così».
Quanto è cambiato da quando vive qui?
«Non lo so. A volte questa città mi toglie un po’ l’aria, qui bisogna essere sempre performanti e correre, anche se spesso non si capisce perché. Io sono uno sgobbone di paese, sia chiaro, sempre disciplinato e preciso, ma non voglio più subire Milano e le sue nevrosi. Voglio continuare a vivere e a nutrirmi delle mie passioni. Usando molto l’aereo capisco meglio tutto questo durante i lunghi viaggi quando, in quella specie di bolla temporale che è un volo, mi sento così relativo da recuperare la mia giusta dimensione. Capisco che cosa sto perdendo e che cosa non devo più perdere. Ecco, la lotta fra me e Milano è tutta qui».
Come si difende?
«Preservando il mio mondo per stare meglio da solo e con gli altri. Gente con cui ho lavorato dalla mattina alla sera per anni non ha mai saputo che fossi fidanzato».
Anche lei frequenta gente di cui non sa niente?
«No, io no. A me interessa approfondire. Nel mio ambiente di lavoro, però, i confini con le persone sono molto difficili da stabilire, anche per via del narcisismo. Il problema perè è che poi qui le teste saltano con molta facilità. Per questo ho imparato a tenere le distanze. La regola è semplice: “Tu puoi comprare il mio lavoro, ma la mia libertà, la mia vita, è mia e solo mia”. Chi accetta il sistema fino in fondo rischia di autorizzare se stesso a fare di tutto per continuare a farne sempre parte. Sto parlando troppo male di Milano?».
Nessun problema. La delusione più cocente che ha patito?
«Mi è andata sempre così bene che non saprei. No, forse lo so. Mi hanno sempre offerto tanto lavoro ma mai una vera posizione, un ruolo importante, uno di quelli che magari non accetterei nemmeno ma che a una certa età, come riconoscimento, non mi dispiacerebbe»
Qual è la zona della città che le piace di più?
«Il cavalcavia Bussa. Realizzato nel 1961, collega due quartieri: la zona più centrale di corso Como e il quartiere Isola, unendo via Quadrio e via D’Azeglio con via Pepe, via Borsieri e via De Castillia. È un posto di frontiera con un bellissimo tramonto. Spesso con il motorino mi piace guardare le macchine sotto, c’è una luce meravigliosa. In quel parcheggio ho fatto anche picnic romantici con i miei fidanzati».
In futuro dove si immagina?
«Non credo che tornerò mai al paesello. Forse potrei trasferirmi a New York, ma lì è molto difficile instaurare rapporti umani. Ecco, a Londra andrei volentieri. Ma vuol vedere che resto a Milano?».

Impostazioni privacy