BRANDO (Orazio Grillo) ## Milanese di Catania, 47 anni, musicista e produttore

 È un capitano di lungo corso, Orazio Grillo detto Brando, chitarrista catanese, classe 1968, da anni fra i più apprezzati e ricercati produttori artistici di musica pop-rock italiana. Solo per rendere l’idea: Brando è stato il regista e il braccio destro – spesso anche il sinistro – di artisti come Modà (per l’album Viva i romantici del 2011), Emma (per Schiena del 2013), Nesli (per Andrà tutto bene di quest’anno). Insomma, quei pochi dischi che ultimamente, in Italia, hanno venduto tante copie – più o meno 600 mila – portano la sua firma. L’ultimo è quello di Edoardo Bennato, Pronti a salpare, pubblicato il 23 ottobre dopo cinque anni di silenzio del cantautore napoletano. Brando, che ha iniziato a 17 anni con i Boppin’ Kids, storico gruppo rockabilly, in trent’anni di carriera ha collaborato fra i tanti con gli americani Rem, B52’s, Primal Scream, e i connazionali Morgan, Jovanotti, Mauro Pagani. Vive a Milano dal 1990.

Da Catania a Milano ci sono 1300 chilometri: com’era Milano vista da laggiù?
«Quando avevo 16-17 anni per me era come Londra. Andare nell’austro-ungarica Milano voleva dire fare un viaggio in una realtà completamente diversa dalla mia».
E Catania?
«Un mortorio, ma con un fermento musicale pazzesco. A pochi chilometri c’era la base americana di Sigonella, dove si potevano ascoltare concerti pazzeschi e comprare dischi mai sentiti prima. Poi c’era un’emittente locale, Radio Esmeralda, che a un certo punto diede spazio a un fenomeno come Francesco Virlinzi – poi diventato il mio produttore (in seguito anche di Carmen Consoli e tanti altri con la sua etichetta Cyclope Records, ndr) – che poteva permettersi di andare spesso a Londra e portare a casa musica fantastica. Che divenne subito la mia: The Gun Club, The Cramps, Suicide, Alan Vega, The Cure, The Clash, The Smiths… Sono cresciuto con questa roba qui. E non solo».
Quando arrivò in città? E perché proprio a Milano?
«A 16 anni mandai ai responsabili di un festival rock anni ’50 di Forlì, un nastro dei Boppin’ Kids. Ci risposero subito: “Il vostro progetto ci piace. Incontriamoci”. Quando ci presentammo non volevano credere ai loro occhi: “Siete dei ragazzini…”. Suonammo alla grande e da allora cominciai a frequentare spesso Milano, anche se dovevo ancora finire il liceo classico. A Milano venivo perché c’era tutto quello che desideravo: progetti, spazi per suonare, interlocutori preparati. E anche un po’ di soldi. La discografia in quegli anni era un business importante. E poi Milano aveva un odore unico e importante…».
Che cosa vuol dire? Quale odore?
«Quello della metropolitana e di McDonald, come a Londra. All’epoca, in Italia, c’era solo a Milano. Mi sembrava di stare al centro del mondo. E poi c’erano le Colonne di San Lorenzo, i Casino Royale, gli skin, i rockabilly come noi, il parrucchiere Hair for Heroes, negozi di dischi fornitissimi, vestiti pazzeschi… A Milano era tutto all’insegna del rock’n’roll».
All’inizio dove si stabili?
«Dopo la maturità classica e l’iscrizione a giurisprudenza, a Catania, a Milano mi sistemai per un po’ in via Mantova, a casa di Pippo Rinaldi, il cantautore Kaballà. Più grande di me di otto anni, anche lui era di Catania, faceva l’avvocato, ed era appena stato assunto all’Inps».
Che aria tirava?
«Esplosiva. Come Boppin’ Kids arrivammo a fare 75 date l’anno. Eravamo diversi dal solito e per questo ci invitavano ovunque. Poi conobbi Patrizia di Malta che frequentai per un po’ di tempo…».
E chi è?
«Le dice niente Gruppo Italiano e Tropicana?».
Certo. Negli anni Ottanta piaceva molto.
«Piaceva anche a me. Poi come Boppin’ Kids firmammo un contratto con la Polygram e ci proposero di andare a Sanremo. Per rispondere usammo il dito medio: quel santo per noi era l’Anticristo. Rifiutammo di partecipare. In quel periodo tramite Patrizia cominciai a frequentare artisti importanti come Mauro Pagani, Massimo Bubola, Fabrizio De André, e ad andare in discoteche come Plastic e Gasoline che organizzavano serate straordinarie. C’era di tutto: musicisti, ballerine, trans… Roba mai vista prima. Attenzione, però: essere siciliani a Milano, all’epoca, non era come oggi».
Com’era?
«Alla fine degli anni ’80 quando io e i ragazzi della band andavamo a dormire negli alberghetti, venti minuti dopo aver consegnato la carta d’identità arrivavano i carabinieri a chiederci che cosa facessimo in città. Quelli che vengono da giù, che magari oggi votano Salvini perché non vogliono rotture di palle dagli immigrati, queste cose non le sanno».
Come lo viveva questo pregiudizio?
«Con un forte senso di rivalsa, non ho mai fatto niente per nascondere le mie origini, per ammorbidire la mia inflessione catanese, il mio accento. I terroni come me sono stati sdoganati da Aldo Baglio di Aldo, Giovanni e Giacomo».
Quando si stabilì definitivamente?
«Nel ’90. All’epoca la musica viveva un periodo d’oro: guadagnavo benissimo anche soltanto facendo i jingle per le pubblicità. Ne ho cantati a decine».
Quali?
«Per Ferrarelle, Coca-Cola, McDonald, Renault… Solo per fare i provini per partecipare alle gare d’appalto mi riempivano di soldi».
Quanto deve a Milano?

«Tantissimo. Altrove non avrei fatto tutte le cose che ho fatto qui. Nonostante mi manchi il mare, l’isola, la mia terra, solo qui sono riuscito a fare quello che sognavo. Il contesto, questa città e le persone che ci vivono, mi ha facilitato molto».
L’importanza del contesto la colgono tutti?
«No, perché chi è nato qui non ha lottato per andare via e per essere accettato. Adesso è tutto normale, ma quando ero ragazzo io fare il musicista, amare il rock, tagliarsi i capelli in un certo modo o portare un orecchino, era una sfida sociale incredibile. A Catania. Mettersi in evidenza e appropriarsi del proprio destino si pagava con l’esclusione, l’ironia, le battutacce. Dimenticavo: Milano offre tanto ma è provinciale. E non è vero che è discreta: tutti guardano dalla tapparella».
Curiosi o pettegoli?
«Curiosi di cazzate, quindi pettegoli. Si trova sempre chi ti fa i conti in tasca, che vuole sapere se abiti in una casa tua o l’hai presa in affitto, e con chi te la fai. Di queste cose sono curiosi tanti milanesi non di quello che ti cambia la vita: il coraggio, per esempio».
La cosa più coraggiosa che ha fatto?
«In generale, mollare progetti e persone quando non ci sono più le condizioni. Quando non mi sento più a mio agio, arrivederci e grazie. In particolare, partire e di fatto abbandonare per sempre la casa. La sicurezza. L’isola».
Si sente un siciliano che vive a Milano, o un milanese d’origine siciliana?
«Siciliano che vive a Milano. Non sono nostalgico, ma la Sicilia è la Sicilia. Anche se conosco tutte le storture della mia terra e sono il primo a criticarle e a non sopportarle. Atteggiamento che spesso non hanno i milanesi con la loro città».
In che cosa si è milanesizzato?
«Nella gestione del tempo. Non arrivo mai in ritardo. Lavoro tantissimo, perché mi piace e perché qui è un’ossessione contagiosa. Nessuno ha mai un giorno libero a Milano. C’è sempre qualcosa da fare. Anche perché è inammissibile farsi trovare impreparati in una città come questa».
Mai che cosa a Milano?

«Andare a vivere fuori città. Se volevo i prati me ne stavo in Sicilia. Io sono venuto qui per lavorare e godermi la città. Voglio il bancomat sotto casa, il bar, il casino delle macchine. La Brianza la lascio a chi la vuole».
Il tratto dominante di Milano qual è?
«I soldi sono il motore di tutto, qui più che altrove. E poi qui conta solo il presente e quello che vali adesso. Il passato non esiste, nessuno ti caga per quello che sei stato».
L’aspetto peggiore?
«Giudicare dalle apparenze, cosa molto vecchia e ben radicata. Farsi i cazzi degli altri. Andare a fondo non è di questa città, che troppo spesso tende a essere superficiale e a sacrificare i sentimenti. Per esempio, con la scusa dell’aziendalismo e della crisi in questi ultimi anni tanta gente ha autorizzato se stessa a fare le cose peggiori. E poi nessuno rischia mai qualcosa per un principio. Tutti furbetti di Serie B».
È la città più italiana o più internazionale?
«La più italiana, la più internazionale, e per certi aspetti anche la più provinciale. Vedi la moda del salutismo: palestra, acqua, dieta vegana, vegetariana… E poi giù a sfondarsi di cocaina».
Qual è la cosa più difficile da realizzare qui?
«Ancora oggi costruire rapporti interpersonali basati su qualcosa che non sia mero interesse. L’amicizia fine a se stessa qui è difficile da trovare e coltivare. Tutti in città sono ossessionati dalla ricerca di una propria realizzazione. Dopo “Come ti chiami?”, “Che cosa fai?” è la domanda che si fa più spesso».
Gli incontri più importanti che ha fatto qui?
«Mia moglie Raffaella, che è ligure ed è più fortunata di me. I suoi genitori sono più vicini a Milano dei miei. A Natale, come sempre, faremo un po’ da lei e un po’ da me».
A un giovane catanese che vuole venire a Milano che cosa suggerirebbe?
«Di capire innanzitutto se stesso e i propri sogni, e poi mettere a fuoco che qui è dura, ma è sempre il posto migliore dove giocarsi qualche carta».
Milano che cosa le ha tirato fuori che non pensava di avere?
«Il senso degli affari e la concretezza. Sono un musicista, io».
E poi?
«Milano mi ha educato, da selvatico del Sud qual ero. Se parcheggiavo sulla strisce mi sgridavano dalla finestra… Cose mai viste giù. Ho imparato l’educazione civica qui, ma temo che la città se la sia persa un po’ per strada. Comunque sono diventato svizzero, non sgarro mai».
Il primo posto che farebbe vedere a un amico che non conosce la città?
«Qui mi manca il barocco, l’arte, la magnificenza che c’è giù… Comunque lo porterei a piazza Giulio Cesare dove c’è la fontana: le fontane mi fanno subito città».
Milano è per sempre?
«Tutto ha una scadenza, ma per ora non andrei via tanto facilmente. Nel bene e nel male, voglio bene a questa città».
Come andò con i Rem?
«Nell’estate dell’87 io e Virlinzi andammo a vedere concerti di ogni tipo. All’ultimo momento decidemmo di andare a Parigi per vedere Bruce Springsteen. Non riuscimmo a trovare un solo biglietto e come due stronzi rimanemmo fuori. Per fortuna, sul giornale leggemmo che allo Zenith c’erano i Rem. In sala c’erano massimo 40 persone. Concerto strano, ma bellissimo: mai sentita una roba del genere con country, rock’n’roll, psichedelia e Beach Boys tutti insieme…. Un suono strano ma bellissimo. Alla fine bussammo alla porta del loro camerino per conoscerli. Siamo amici da allora. Dopo qualche anno produssero un mio disco, registrato nello studio dove hanno fatto Out of Time, quello di Losing My Religion. Qualche anno fa Peter Buck da Nairobi passò a Catania con la moglie per un saluto. Insieme si fermarono cinque settimane a casa mia».
E con i Modà ed Emma com’è finita?
«Mettiamola così: si ride, si lavora, si fanno belle cose. Poi tutto finisce e ognuno va per la sua strada».

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