DANIELE BRESCIANI ## Milanese di Milano, 53 anni, scrittore

Daniele Bresciani è milanese, figlio di milanesi, padre di milanesi (due, Luca e Valentina, 11 e 16 anni). Cinquantatré anni, giornalista di talento e di successo (La Gazzetta dello Sport e Vanity Fair, di cui è stato vicedirettore fino al 2012), nel 2013 ha pubblicato per la Rizzoli il romanzo Ti volevo dire, che ha avuto più ristampe, ha vinto numerosi premi, e a dicembre uscirà anche in Germania per l’editore Heyne. Daniele è milanesissimo, ma da poco più di un anno ha dovuto lasciare la città. Dal settembre 2014, infatti, lavora nella Direzione comunicazione della Ferrari, a Maranello, in provincia di Modena.

Qual è la sua Milano?
«Sono nato e cresciuto in una Milano di periferia, quella di via Padova. In una zona che oggi viene definita multietnica o, peggio, di frontiera, dove le vie hanno nomi di luoghi che da bambino per me non significavano nulla ma che sono diventati tristemente famosi negli ultimi tempi: Bengasi, Benadir, Derna, Agordat. La cosa che mi piace, però, è che queste vie dedicate a città del Nord Africa, un tempo colonie oggi teatri di tragedie umanitarie, sorgano attorno a una piazzetta dedicata a una città israeliana, Largo Tel Aviv. È come se Milano, a suo modo, volesse dire che una convivenza è possibile. Oppure è semplicemente l’opera di un urbanista con un diabolico senso dell’umorismo: abbastanza milanese anche questo».
Poco più di un anno fa è emigrato. Perché?
«Quando ho iniziato a lavorare come giornalista alla fine degli anni Ottanta e sono stato assunto in Rizzoli, un amico mi aveva detto: “Ormai sei a posto: è come essere in banca”. L’ho creduto anch’io, a lungo. Le grandi case editrici erano luoghi privilegiati e noi ci siamo illusi che nulla potesse intaccare quella magia. Milano, come cantava De Gregori, era la città dei sarti e dei giornali. I sarti godono ancora di ottima salute, i giornali invece hanno iniziato a morire. Solo che quelli che dovevano prendersene cura hanno fatto finta di niente finché si è arrivati in camera di rianimazione. Anzi, la mia impressione è che qualcuno resterà a guardare anche all’obitorio, sperando nella resurrezione. Temo che non basteranno tre giorni».
Com’è il salto da Milano alla provincia emiliana?
«Un po’ straniante. Avevo già “tradito” Milano per Londra, tra il 1992 e il 1994, quando avevo fatto un’esperienza di lavoro al Guardian. Ma quello, appunto, fu un passaggio verso una grande metropoli: il provinciale ero io. Quella che sto vivendo ora è l’esperienza inversa. Abito a Modena, città splendida il cui centro si attraversa a piedi in dieci minuti, e lavoro a Maranello, un paesino di 18 mila abitanti che ospita quello che è il marchio italiano più famoso al mondo. Senza offesa per i “sarti” appena citati. È che quando sei abituato a Milano, pur con i suoi difetti, fai fatica…».
Nostalgia?
«Non tanto del luogo, ma di quello che significa per me. Oggi sono un milanese al contrario. Molti di quelli che ci vivono scappano da Milano per il weekend: mare, montagna, lago. Io invece lascio la città all’alba di lunedì e ci torno il venerdì sera, per poi passare il fine settimana con i miei figli. E così tutto mi sembra meglio di quello che è».
La sua Milano da bambino com’era?
«Il ricordo più forte è il Parco Lambro, dove mio nonno mi portava dopo la scuola e dove ho imparato ad andare in bicicletta. C’era persino un laghetto dove qualcuno pescava, e quella cascatella del fiume che ti faceva sentire in campagna. Poi, negli anni Settanta, è diventato un luogo inavvicinabile: droga, spaccio, violenza. C’era da aver paura. Ci hanno messo un bel po’ a ripulirlo. Non ci passo da parecchio, ma spero che ci sia qualche altro bambino che impari ad andare in bicicletta lì».
Altri luoghi che hanno significato per lei?
«Sono quelli dove ho visto concerti memorabili, anche se molti oggi non esistono più o sono diventati altro. Penso al Rolling Stone, di corso 22 marzo: un concerto indimenticabile che ho visto lì, quello di Laurie Anderson che cantava O Superman. Oppure al Vigorelli: ci ho visto i Kiss – come supporter c’erano gli Iron Maiden, tanto per gradire… – Dire Straits, Roxy Music, King Crimson. Lo Smeraldo – oggi Eataly – dove ho assistito al concerto di Fabrizio De Andrè in quella che è stata la sua ultima tournée. L’Arena Civica: nel 1979 c’ero quando gente come Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Angelo Branduardi, Eugenio Finardi, Skiantos, Banco del Mutuo Soccorso si era riunita per una serata eccezionale per raccogliere fondi per curare Demetrio Stratos. Solo che Stratos era morto il giorno prima e quello è diventato un tributo per lui, in cui i suoi Area suonarono un’indimenticabile versione dell’Internazionale. E poi le due Scale».
Due?
«Quella del Piermarini e quella del calcio, sponda nerazzurra. A San Siro mio padre mi ci portava da bambino, ho fatto in tempo a vedere l’ultima Inter di Facchetti, Mazzola e Boninsegna. Poi hanno fatto il terzo anello e niente è più stato lo stesso».
E adesso?
«Ora vivo dalle parti della Stazione Centrale. Sono un abitudinario. Il sabato vado al mercato di via Benedetto Marcello, all’enoteca di Via Vitruvio e al Libraccio di Via Vittorio Veneto. Mangiare, bere, leggere: è la mia Milano di oggi«.

Impostazioni privacy