IRENE SERINI ## Milanese di Trieste, 40 anni, attrice di teatro

Il teatro è un luogo d’incontro. Fare teatro significa avere un incontro, senza uno schermo che divide chi recita da chi ascolta e partecipa. Ormai è uno dei pochi luoghi a non averne uno. Lo schermo, infatti, è diventato imperante nelle nostre vite. È ovunque: in uno smartphone, in un pc o nello schermo di una sala cinematografica. Il mondo è pieno di luoghi schermati. Per questo il teatro va difeso. E Irene Serini, attrice, lo difende, o almeno ci prova. Nata e cresciuta a Trieste, vive a Milano dal dicembre 1999. Nel 2002 si è diplomata alla scuola del Piccolo Teatro di Milano. Nel 2010 ha fondato con Marcela Serli, attrice e regista teatrale di origine argentina, la compagnia Atopos (che vuol dire “non classificabile”) composta da persone transessuali, transgender ed eterosessuali. In pratica, un progetto artistico che affronta l’ampio tema dell’autodeterminazione, dell’identità, della sessualità e dell’amore in relazione al controllo sociale.

Come nasce la decisione di creare una compagnia di persone transessuali?
«Il progetto Atopos indaga sul genere e sull’identità di genere, come sulla sessualità, ed è composta da transessuali, transgender ed eterosessuali, uomini o donne che siano. È l’unione tra queste diverse persone l’alchimia giusta. Quello che mi ha spinto a crearlo è stata la lettura del libro di Mario Mieli Elementi di critica omosessuale, che è una tesi di filosofia morale, pubblicata nel 1977. Nonostante il titolo infelice, che forse aveva un senso in quegli anni, è un testo che definirei rivoluzionario, da far leggere a tutti. Il mio percorso mi ha portato a vedere l’identità sessuale come una rappresentazione e il teatro è il luogo per eccellenza della rappresentazione, per cui poteva essere il luogo giusto dove iniziare a parlare di identità di genere. D’altronde il teatro è stato il primo luogo dove agli uomini è stato concesso di essere donne, cosa che nella realtà, non era possibile fare».
Sì, ma a chi vi rivolgete?
«A tutte le persone interessate a indagare sull’identità di genere, in qualsiasi modo si scelga di indagare. Il pubblico più difficile da conquistare è l’uomo eterosessuale di una certa età, ma spesso, dopo lo spettacolo, ci siamo sentiti dire “avrei voluto salire sul palco anch’io”. Il protagonista in teatro è, infatti, sempre il pubblico. Il suo ruolo è il più bello di tutti, perché è quello del personaggio che ascolta emozionandosi. Noi attori siamo consapevoli della diversità di pubblico e qui a Milano c’è una varietà di pubblico bellissima, un ventaglio enorme di possibilità».
Milano è una città che permette di guardarsi in faccia?
«La prima cosa che ho subito notato qui è il rapporto con il ritmo, con il tempo. Mi ero accorta che, rispetto a Trieste, tutto mi sfuggiva, tutto correva più veloce di quanto fossi abituata. Trieste è una città che sta ai margini, dove puoi stare al bar a parlare con un amico e guardare il mare; Milano non è così. Qui le persone seguono ritmi lavorativi e, dal momento che il lavoro è legato all’economia, ha ritmi faticosi per chi arriva da fuori. Questa velocità, che in parte è anche isteria, mi ha messo in difficoltà: non riesco a guardare in faccia le persone se poi devo scappare. All’inizio ho sentito molto anche la mancanza della natura: da Trieste in dieci minuti arrivi sul Carso o sul mare, invece qui c’è molto più asfalto di quanto non fossi abituata. Posso capire quindi chi, agli inizi, si trova a disagio, però sono 15 anni che vivo a Milano. Se sono rimasta è perché questo è il luogo in cui mi sono distaccata dall’immagine che altri avevano costruito per me, da quell’identità costruita dalla famiglia e dal luogo in cui sono nata. Qui sono diventata veramente me stessa, anche perché a Milano hai la possibilità di incontrare moltissime persone che, come me, vengono da altrove».
Il ritmo, però, è un aspetto fondamentale del teatro. Come si lega quello lento del teatro con quello frenetico di Milano?
«È uno scontro-incontro. Dal punto di vista teatrale, Milano è la città più interessante d’Italia, perché ha un numero di sale impressionante, ha una produzione molto variegata perché è l’unica ad avere sale di medie dimensioni. Questo significa che una compagnia, anche giovane e piccola, ha accesso a sale di 250-500 spettatori e quindi può avere una buona visibilità. Ci sono poi due teatri in particolare, L’Elfo e il Franco Parenti, che hanno più sale e che hanno bisogno di giovani per riempirle. C’è poi il teatro Ringhiera che, con un’unica sala in periferia è molto creativo e dà spazio ai giovani. A Roma, ad esempio, questo non è possibile: lì ci sono teatri enormi e istituzionali oppure quelli piccolissimi, le vecchie “cantine romane”. I ritmi veloci rendono tutto più complicato. Uno spettacolo ormai viene realizzato in tempi rapidissimi ed è sempre più soffocato dal ritmo, come dai soldi. Oggi si lavora per periodi sempre più brevi e a costi sempre inferiori: il rischio è che gli spettacoli siano più superficiali e si lavori “a macchinetta” e che quindi l’attore non abbia possibilità di sperimentare. C’è poi un tempo, lunghissimo, che non è pagato ma è fondamentale per l’attore: quello della vita. Poi c’è il tempo della messa in scena che, se sei fortunato, dura 30 giorni. Ma incontrare un personaggio è come incontrare una persona e l’attore ha bisogno di crescere con lui. Parlare, quindi, di tempi e di ritmi in campo artistico è sempre fuorviante: il lampo, alla fine, arriva sempre. Il problema è quando arriva, se il primo giorno di prove o a metà tournée.
Milano è una città palcoscenico, dove mettere in scena la quotidianità della vita, o un luogo che dà spunti per creare uno spettacolo da portare altrove?
«Di Milano si dice che è la città della moda, una città vetrina, la città dell’economia, ma non ho mai sentito che è una città palcoscenico. Però, se penso al mio stupore dei primi anni, quando vedevo come si vestivano le persone in Brera, dove sono arrivata, e lo paragono ai carruggi di Genova, credo che siano due modi molti diversi di presentarsi. L’abito, per me, è sempre un abito di scena, per chiunque e dovunque. Non a caso il luogo che preferisco è la spiaggia naturista: nudi siamo tutti uguali. Milano, per la mia storia, credo che sia più un luogo dove si portano cose da fuori».
Se l’abito è sempre un abito di scena, allora anche chi siamo – come sosteneva Pirandello – non è altro che la maschera teatrale che abbiamo deciso di indossare?
«Alla base della mia compagnia c’è proprio l’identità e alcune domande fondamentali su di essa. Che cos’è l’identità? Chi la determina e a chi serve? Indagando su queste domande, nel nostro piccolo, abbiamo scoperto che non è un fatto personale: non sono io l’autore della mia identità, ma sono solo uno dei tanti che partecipano alla sua costruzione e fra questi è compresa anche la città in cui vivo. L’identità è sempre in movimento e non è un modello. Apparteniamo ancora alla scuola di pensiero che vede nell’identità un modello, per cui si è quasi costretti a recitare per avvicinarsi a quel modello. In più l’identità non serve solo a te, ma anche a chi ti sta intorno e alla società in cui siamo inseriti. Noi recitiamo tutti e siamo costretti a farlo per vivere in questo mondo. Il punto è come ci relazioniamo con questa recita, come lo fa l’attore sul palco. Sei consapevole che stai recitando? Accetti il fatto che sia una recita? Pur recitando, decidi di dire che sei anche diverso? Dobbiamo decidere che rapporto avere con la nostra maschera e la nostra recita. C’è chi dice che “identità” sia una termine superato e che sia meglio parlare di “identificazione” che non è più un modello (costruito da altri per te), ma un avvicinarsi al modello senza esserlo».
Qual è il motivo per cui, alla fine, è rimasta a Milano?
«Per il mio lavoro sono spesso in giro e, ogni volta, dicevo “sarebbe bello vivere a Genova”, piuttosto che a Catania o Roma. Per molti anni mi sono detta che non dovevo vivere a Milano, ma in un luogo dove fossi più a mio agio con i tempi. In realtà, alla fine (come dice lei), mi sono comprata casa a Milano. Sono rimasta perché, alla fine (appunto!), è un luogo dove ho sempre fatto tanta fatica, ma mi sono accadute cose che altrove non sarebbero successe. Milano ti dà l’occasione di conoscere davvero realtà molto diverse, dal centro alla periferia. Qui, con amici complici, ho creato una compagnia teatrale composta da persone transgender e transessuali: a Catania o in altre città sarebbe stato più complicato. Di Milano apprezzo che è una città trangender: dentro questo luogo si trovano centinaia di identità. Milano, ad esempio, è Puglia, vista la grande comunità pugliese che vive qui; è Napoli, Trieste e tante altre città. Ha in sé tante identità. I “milanesi doc” sono pochissimi, ma i milanesi non sono più quelli nati e cresciuti a Milano. Lo stesso Giorgio Strehler, milanese per adozione, si è sempre definito triestino; io stessa vi ho preso la residenza soltanto dopo 15 anni. Conosco una marea di persone che vive a Milano ma che non si considera milanese. È una città che evolve in continuazione e che ti toglie anche quei punti di riferimento che hanno segnato la tua vita, che sia la libreria dove hai vissuto momenti importanti o la nuova Darsena. A Milano ho visto persone guardare al passato con nostalgia. È una città attiva, sul presente e sul futuro. I napoletani si considerano napoletani, come i baresi o i genovesi, ma quelli che stanno a Milano, sono quelli che stanno a Milano. Milano, per me, è davvero transgender».
Milano ha abbastanza rispetto di se stessa?
«A volte Milano ti dà l’idea di una città in vendita. E, per questo, pensi di essere in vendita anche tu».

Impostazioni privacy