VALERIO MASSIMO VISINTIN ## Milanese di Milano, 52 anni, critico gastronomico

All’appuntamento per fare la foto e l’intervista che avete sotto gli occhi si è presentato così come lo vedete, con la maschera nera, e con quella – dopo un’ora e mezza – se n’è andato. Non l’ha mai tolta. E in fondo fa bene così: la trovata è buona e va difesa in tutti i modi. Valerio Massimo Visentin, stimato e temuto critico gastronomico del Corriere della Sera, l’ha adottata nel 2009 e ancora funziona: nessuno sa com’è fatto e lui, così, può continuare a girare per i ristoranti di Milano e d’Italia senza essere riconosciuto. Milanese doc, 52 anni, sposato senza figli, Visintin – che è interista e ci tiene a farlo sapere – a febbraio ha pubblicato PappaMilano 2016 – 150 indirizzi per mangiare bene e non spendere una fortuna e oggi, 19 maggio, fa il bis con Cuochi sull’orlo di una crisi di nervi. Quando ha suonato il citofono, e l’ho visto conciato a festa nel piccolo monitor, mi è sembrata una scena di Fantômas. Roba seria.

Come se la passano i cuochi di Milano?
«I cuochi non sono una categoria professionale socialmente omogenea. C’è di tutto: uomini e donne d’ogni ceto e blasone. Eppure, li accomuna un diffuso disagio. Come se si fosse smarrito il senso di quelle fatiche quotidiane. E con esso, l’onore e la passione. Chi sta ai vertici della catena sociale, trascura la propria missione, inseguendo i palcoscenici dei “congressi golosi” o le glorie televisive. Chi sta ai piani più bassi, se non sogna di emulare i colleghi famosi, macina sbobbe per pura routine. Nel mezzo, tanti professionisti senza certezze, sballottati nel mare di insegne che sorgono e si inabissano nel giro di qualche mese. Come se la passano? Sono sull’orlo di una crisi di nervi».
Lei quando ha iniziato a occuparsi di cucina?
«Nel 1990, a 26 anni. In precedenza avevo scritto per piccolissime case editrici che si occupavano di golf, disegno e architettura. Argomenti di cui non sapevo assolutamente nulla. Poi passai a fare il correttore di bozze e per un po’ provai a fare anche l’attore. Ma ero negato e lasciai perdere quasi subito. La svolta ci fu con una notizia tragica».
Quale?
«A 59 anni, all’improvviso, morì mio padre, cronista del Corriere della Sera. Siccome collaborava con alcune riviste di cucina, e non aveva avuto il tempo di consegnare un articolo su tre ristoranti friulani, mia madre mi disse: “Perché non lo scrivi tu? Eri con noi, hai i suoi appunti, qual è il problema?”. Andai a parlarne con Schieppati, il direttore di Bar Giornale – all’epoca stampato nell’incredibile numero di un milione di copie – che mi disse subito sì, per lui era un normale passaggio di testimone. Da allora, non ho più smesso. Sono passati 26 anni».
I milanesi a tavola come sono?

«C’è di tutto. Ci sono i modaioli attenti a qualsiasi cazzata tranne che al cibo, i rompiscatole iper precisi e noiosi, gli spendaccioni, quelli tiratissimi… Ci sono anche le persone normali, per fortuna».
Come scelgono?
«Sono maleducati. Nel senso letterale: educati male. Milano non ha una grande tradizione culinaria, quindi è molto sensibile alle mode e di conseguenza tende a far sue cucine di altre parti d’Italia o del mondo: la pugliese, la toscana, la giapponese… Adesso c’è l’idiozia della pizza gourmet e lo street food. Insomma, essere curiosi e disponibili va benissimo. Essere in balia dei venti e accettare qualsiasi cosa, magari con varianti ridicole, no».
A Milano si riesce a mangiare alla milanese?
«È difficile, c’è poco o niente in giro. Resistono vecchi locali aperti tanti anni fa e basta. Di nuovo non c’è altro».
Quanti ristoranti ci sono?
«Più meno settemila, duemila in più rispetto al periodo pre Expo. Un po’ troppi, direi».
Come la vede l’invasione mediatica degli chef?
«La aborro, anzi, mi fa un po’ schifo… Nuoce al mondo della ristorazione. Questo star system non ha niente a che vedere con la realtà, anche commerciale, della ristorazione milanese e italiana. Molte di queste stelle dei fornelli hanno i locali in perdita».
Faccia qualche esempio.
«Davide Scabin nel suo ristorante all’interno del castello di Rivoli, alle porte di Torino, deve 230 mila euro di affitto mai pagato all’amministrazione comunale. E anche su Cracco, a Milano, tempo fa circolavano strane voci. Insomma, sembra che i conti economici degli esercizi stellati non stiano in piedi. C’è troppa sproporzione fra clienti e staff, spese e incassi. A meno che non ci sia un supporto economico esterno, è un modello che non funziona».
Quando in Tv le capita di fermarsi su uno dei tanti programmi di cucina che fa?
«Cambio subito canale. Al massimo guardo Guerrino su TeleNova, un cuoco vicentino che ha una fantastica comicità involontaria. Si scotta, gli cadono gli strumenti, dice sempre le stesse cose…».
Parenti e amici le chiedono spesso consigli?
«Sì, ma in realtà credono tutti che io faccia un mestiere bislacco, che il mio sia un gioco, una specie di passatempo originale. Nessuno prende sul serio il mondo della ristorazione. Chi fa il professore o l’ingegnere mi vede come uno un po’ fuori…».
Mascherato così non hanno tutti i torti.
«Sì, certo. Però funziona, dai».
Ci campa? Le arrivano tante richieste per fare pubblicità?
«Lavorando per il Corriere, sì. Prima mi arrivavano offerte di ogni tipo, soprattutto grazie ai social, adesso non più. Ormai nel giro tutti sanno che reagisco male. Il problema è che la professione del giornalista si sta polverizzando e sarà sempre più difficile essere davvero indipendenti».
Gli altri suoi colleghi sono in qualche modo compromessi?
«Diciamo che sono tutti impuri. Per un fatto di sopravvivenza nessuno può permettersi di scrivere quello che vuole. Infatti nei ristoranti vanno tutti a viso scoperto, presentandosi. Il risultato è che alla fine raccontano un’esperienza che i loro lettori non vivranno mai. Ha presente quello che succede in un locale quando tutti in cucina e in sala sanno che c’è un giornalista che scriverà di loro?».
Tutti danno il massimo.
«Esatto. Io invece vado a mangiare come un cliente qualsiasi, senza presentarmi né dire che lavoro faccio».
In un anno quante volte va a mangiare fuori?
«Dipende. Diciamo mai meno di 200-250 volte».
Va da solo o in compagnia?
«Mai da solo perché in Italia non è così frequente farlo, quindi per evitare che qualcuno possa insospettirsi vado con amici o con mia moglie. Ho molto complici».
Ha mai avuto la sensazione di essere riconosciuto?
«No. Anche se c’è chi dice di avermi visto in questo o quel locale… Io dico sempre di sì».
Un esperto come lei capisce subito, prima ancora di mangiare, come andrà a finire?
«La prima impressione quasi sempre viene confermata. Se in un ristorante non funziona il meccanismo dell’accoglienza, anche il resto non sarà un granché».
Il suo lavoro quanti chili in più le ha regalato?
«Qualcuno, non tantissimi».
Ogni tanto fa le analisi cliniche?
«No. Meglio non pensarci».
La maschera è un passamontagna o un sottocasco?
«Un sottocasco. Lo indosso dal 2009 in tutte le occasioni pubbliche. Prima avevo provato a presentare un libro con altri nove amici tutti vestiti da rabbini, con barba e occhiali finti, che rispondevano alle domande leggendo un test che avevo scritto in precedenza. Un’altra volta avevo mandato nove donne, sempre con barba e occhiali finti, dicendo loro di presentarsi tutte come “la moglie di Visintin”. Alla fine, però, i giornalisti volevano parlare davvero con l’autore, e allora mi ono dovuto organizzare: a casa ho trovato queste cose da mettere…».
La prima volta che si è mascherato?
«Nel 2009, alla Feltrinelli di corso Buenos Aires. La presentazione del libro era stata organizzata al piano di sotto, così poco prima sono andato in un angolino per travestirmi: dopo pochi secondi davanti a me ho trovato due persone pietrificate dalla paura. Eravamo di fronte al reparto Gialli e thriller. Che scena…».
Quanti libri ha scritto?
«In tutto trentacinque».
La vedremo mai in Tv?
«Chi lo sa? Ho un po’ di buone idee, ma ci vuole qualcuno che abbia coraggio. Per ora tante chiacchiere, ma niente di concreto».
Quando sua moglie la vede uscire di casa mascherato che cosa le dice?
«Prima si divertiva, adesso non ci fa più caso. “Amore esco”. “Sì, ciao”. È stata lei, però, a dirmi di mettere anche i guanti: una donna le mani di un uomo le riconosce subito».
Che ne pensa deI boom della cucina vegetariana e vegana, l’attenzione estrema a tutti ciò che è bio, le mille intolleranze alimentari?
«Mah! Da una parte ci sono sicuramente scelte da rispettare e patologie serie da considerare, dall’altra c’è un’attenzione malata verso il cibo che spinge a fare cose assurde e ridicole».
Tipo?
«La pizza con il lievito madre, che nessuno ha mai usato prima. Un fenomeno, questo, che nasce perché ovviamente ci sono marchi interessati che spingono dal punto di vista mediatico. Ecco perché adesso vanno le farine di ogni tipo. Per non parlare del vino, un ambiente che tende ad attrarre pazzi maniaci… Insomma, c’è di tutto. Tantissimi furbacchioni. A Expo, per esempio, c’è chi ha lucrato in maniera incredibile sfruttando la moda degli chef. Nello spazio molto frequentato di Identità Golose, per esempio, che io chiamo “Identita Dolose”, invitavano gli chef a cucinare gratis e poi davano a Expo solo il 10 per cento dell’incasso».
Riceve tante querele?
«Minacce tante, qualcuno ha anche detto che vuole spaccarmi la testa. Ma poi, alla fine, non succede mai niente».
Dopo Expo è rimasto qualcosa in città dal punto di vista culinario?
«Niente. Expo era a Rho, era un mondo a parte. Che non c’è più».
Senta, ma lei sa cucinare o no?
«Un tempo mi divertivo a farlo, più che altro per cuccare».
Funzionava?
«No. Le invitavo a casa, bevevano e mangiavano in abbondanza, poi mi chiedevano di essere accompagnate a casa e finiva lì. Vinceva il cuoco sull’uomo, e allora ho smesso».
A casa adesso chi cucina?
«Nessuno. Non ci sono mai. Al massimo ci facciamo un’insalatina ogni tanto».
Una dritta per mangiare bene senza spendere cifre assurde?
«Spazio Milano, il ristorante degli allievi della Niko Romito Formazione, la scuola dello chef abruzzese a cui la Guida Michelin ha dato tre stelle. Si trova in Galleria, all’ultimo piano del Mercato del Duomo. Il rapporto qualità-prezzo è ottimo, per ora. Fanno tutto loro, anche il pane. I ragazzi che servono sono addirittura educati e sorridenti».

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